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XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina

Dn 12,1-3   Sal 15   Eb 10,11-14.18

O Dio, che farai risplendere i giusti come stelle nel cielo,

accresci in noi la fede, ravviva la speranza

e rendici operosi nella carità,

mentre attendiamo

la gloriosa manifestazione del tuo Figlio. Egli è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro del profeta Daniele Dn 12,1-3

In quel tempo sarà salvato il tuo popolo.

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.

Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.

Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.

I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.

La speranza della risurrezione al tempo della ricapitolazione della storia

Questo testo si situa al termine di un capitolo del libro di Daniele nel quale si narrano le vicende del regno di Antioco IV, il re siriano persecutore dei giudei, fino al momento della sua morte. Secondo il metodo tipico dell’apocalittica, l’autore immagina che queste vicende, già avvenute, siano state rivelate in anticipo a un personaggio del passato, Daniele, al quale viene poi attribuito l’annunzio di ciò che avverrà tra breve. Se dunque Daniele ha preannunziato ciò che poi si è avverato, si suppone che siano credibili anche le profezie riguardanti il futuro, che l’autore ugualmente gli attribuisce. Il testo liturgico riprende alcuni versetti del testo nel quale si descrivono gli eventi futuri: «Ora, in quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo» (v. 1a). Ciò che viene annunziato avverrà «in quel tempo», cioè il tempo della morte del re persecutore (11,40-45) che fa parte del «tempo della fine» (11,40; 12,4). Michele, già menzionato come angelo protettore di Israele (cfr. Dn 10,13-21), ritorna qui con una funzione particolare: egli è colui «che vigila sui (lett. «che sta sopra») i figli del tuo popolo». L’espressione ebraica potrebbe avere una connotazione giudiziale: stare come in tribunale per difendere qualcuno o per eseguire la sentenza della corte. Effettivamente i versetti seguenti 12,2-3 implicano il grande giudizio escatologico. Il tempo in cui sorgerà Michele «sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo» (v. 1b). L’attesa di un «tempo di angoscia» fa parte del motivo tipicamente apocalittico delle tremende tribolazioni degli ultimi tempi (cfr. Mc 13,19.24 par.). Dopo la grande tribolazione verrà la salvezza del popolo di Daniele: «In quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro» (v. 1c). Per la quarta volta ricorre in questo versetto il termine «tempo». Questa volta ha un significato favorevole per il popolo di Daniele, non però indistintamente per tutti gli ebrei, ma per chiunque di loro «si troverà scritto nel libro». La salvezza qui annunciata sembra che riguardi i giudei che saranno in vita negli ultimi tempi. Ma quale sarà la situazione di quelli che allora saranno già morti? A questa domanda risponde il versetto seguente: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna» (v. 2). Il termine «molti» (rabbîm) indica una moltitudine che in questo contesto si riferisce probabilmente a tutto il popolo di Israele e non solo a una parte di esso, come sembrerebbe suggerire l’espressione «molti dei dormienti». L’espressione «nella regione della polvere» si riferisce allo shehol, il mondo dei morti, dove questi sopravvivono in uno stato ombratile e infelice. Il verbo «svegliarsi» indica il tornare dalla morte alla vita (cfr. 2Re 4,31; Is 26,19). Per i risorti ci saranno le due destinazioni: «la vita eterna» per i giudei fedeli che sono morti nella persecuzione di Antioco e «la vergogna e l’infamia eterna» per i giudei che nel contesto della stessa persecuzione hanno ceduto alle lusinghe del persecutore (forse anche i loro persecutori). Il linguaggio del versetto ha contatti importanti con altri testi (per es. Is 26,19). Mentre però in questi testi la risurrezione è probabilmente una metafora per indicare la restaurazione nazionale del popolo (come anche in Ez 37,1-14), in Dn 12,2 lo stesso linguaggio è usato per comunicare una nuova speranza, quella cioè della risurrezione individuale dei morti. Di coloro che risusciteranno per la vita eterna si afferma: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (v. 3). I saggi sono  quelli che hanno dato la vita per indurre la moltitudine del popolo alla fedeltà verso Dio e le sue leggi (cfr. Dn 11,33.35). Al momento della salvezza finale costoro torneranno a una vita piena per partecipare alla felicità di tutto il popolo. Il loro impegno in favore del popolo li assimila dunque al servo di YHWH del quale si dice: «Il giusto mio Servo giustificherà molti, si addosserà le loro iniquità» (Is 53,11b): questa espressione non si trova in nessun altro testo della Bibbia ebraica. Si può quindi supporre che l’autore di Dn 12,3 voglia affermare che, mediante i giudei martiri del tempo di Antioco continua la missione, affidata al Servo, di condurre il popolo alla salvezza. La verità di questo testo e di altri testi escatologici sta nella convinzione religiosa che in ultima analisi il male non trionferà e che quanti sono fedeli a Dio verranno certamente premiati per le loro sofferenze. Proprio questa convinzione dà origine al concetto di risurrezione che non è stato elaborato per rispondere alla domanda della sopravvivenza dopo la morte ma per affermare la partecipazione dei giusti alla restaurazione finale del loro popolo.

Salmo responsoriale Sal 15

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:

nelle tue mani è la mia vita.

Io pongo sempre davanti a me il Signore,

sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore

ed esulta la mia anima;

anche il mio corpo riposa al sicuro,

perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,

né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,

gioia piena alla tua presenza,

dolcezza senza fine alla tua destra.

Dalla lettera agli Ebrei Eb 10,11-14.18

Cristo con un’unica offerta ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.

Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.

Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

Cristo, sommo sacerdote, sorgente inesauribile di perdono

L’autore della Lettera agli Ebrei continua il discorso sul sacerdozio di Cristo e la sua superiorità rispetto a quello dell’antica alleanza. Il v. 10, che precede la pericope liturgica, afferma che siamo stati santificati per mezzo dell’offerta che Gesù ha fatto del suo corpo sulla croce, una volta per sempre. Il discorso continua spiegando in che senso siamo stati santificati. Il nostro autore istituisce un paragone tra Gesù e i sacerdoti del tempio. Essi offrono sacrifici inutili poiché non possono eliminare i peccati. Cristo, invece, ha presentato la sua offerta una sola volta e per sempre. La morte di Gesù è letta secondo la categoria del sacrificio nel quale ha offerto sé stesso al Padre, per questo Egli lo ha risuscitato e lo ho ha intronizzato alla sua destra. Sullo sfondo si intuisce il salmo 110: «Oracolo del Signore al mio signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». Il sacrificio di Cristo non giova solo ai giusti ma anche agli avversari di Dio per i quali Egli ha donato suo figlio affinché anche i nemici fossero vinti dall’amore; il processo salvifico, innescato con la morte di Gesù, mira alla salvezza di tutti gli uomini che, accogliendo il dono del Padre, scelgono di corrispondergli con amore filiale. Con la resurrezione Gesù è divenuto Signore e, in base a questa signoria celeste, si può comprendere la ragione profonda dell’efficacia salvifica della sua unica offerta storica. Solidale con i fratelli, con cui ha condiviso la condizione mortale, egli li ha portati con sé nella sua intronizzazione celeste, rendendoli partecipi della sua condizione di “consacrato”. Quindi, non solo li ha strappati dalla condizione di peccato, ma li ha resi perfetti, li ha santificati, li ha totalmente consacrati a Dio realizzando compiendo la volontà di Dio e il progetto della salvezza. Il nostro brano salta i versetti 15-17 in cui è citato Ger 31,33-34, in cui Dio promette di porre la propria legge nel cuore dei suoi fedeli, in modo che possano conoscere il Signore senza più istruirsi l’un l’altro. Il brano termina con il perdono di Dio: «non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità». La pericope liturgica riprende dal v. 18 che conclude il discorso affermando che non c’è più bisogno che gli uomini offrano sacrifici per ottenere il perdono perché esso sgorga continuamente, come l’acqua dalla sorgente, dal cuore di Cristo. A noi spetta il compito di ricevere questo dono gratuito perché anche il nostro cuore diventi sorgente di amore.

+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 13,24-32

Il Figlio dell’uomo radunerà i suoi eletti dai quattro venti.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«In quei giorni, dopo quella tribolazione,

il sole si oscurerà,

la luna non darà più la sua luce,

le stelle cadranno dal cielo

e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.

Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.

Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.

In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

LECTIO

Contesto

Il capitolo13 raccoglie alcuni detti di Gesù in forma di discorso, che è il più lungo nel vangelo di Marco. Dopo l’introduzione (vv. 1-4), nella quale i discepoli domandano a Gesù lumi sugli eventi degli ultimi tempi, egli risponde mettendo in discussione indirettamente la loro pretesa di conoscere in anticipo il «quando» e i «segni» della fine (vv. 5-23). Nel cuore del discorso il Maestro propone il grande segno della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo (vv. 24-27), mentre la conclusione è affidata a due immagini simboliche portatrici del pressante invito alla vigilanza (vv. 28-37).

Gesù si allontana definitivamente dal tempio per non tornarci più. Questa scena va letta in parallelo con quella di Ez 11,22-25 nella quale si descrive l’allontanamento della gloria divina da Gerusalemme. Venendo meno l’ “anima” del tempio, esso è destinato a perire come un corpo. Le parole di Gesù, che anticipano la rovina del tempio, confermano questa interpretazione. Ancora una volta s’introduce il tema dell’incomprensione dei discepoli i quali, attardandosi ad ammirare l’estetica esterna del sacro edificio, dimostrano di non aver compreso nulla dei gesti e delle parole di Gesù nelle sue tre visite al tempio. Il tragico destino del tempio è chiave di lettura dell’evento della passione della quale i Dodici faticano a comprenderne il valore e il senso. Tuttavia, se agli annunci della passione erano seguite reazioni di chiusura e silenzio da parte degli apostoli, la profezia della fine del tempio, la cui memoria storica era ancora impressa nella loro coscienza e che essi credevano non potersi più verificare, segue, invece, curiosità sul futuro prossimo del tempio che sembra avere i giorni contati. Il tempio non aveva solo un valore religioso ma identitario perché quello spazio, con i suoi riti, significava la relazione tra Dio, l’uomo e il mondo. Venendo meno il tempio, di conseguenza sarebbero crollati quei principi sui quali si poggiava la fede e la speranza d’Israele. La sorte del tempio diventa occasione per aprire davanti ai suoi discepoli un orizzonte nuovo che riequilibra le relazioni incentrandole su Gesù Cristo, morto e risorto.

Come la prima parte del discorso (vv.5-23) anche la terza (vv.28-37) si presenta come un dittico nel quale si susseguono due parabole, quella del fico (vv.28-32) e dei servi vigilanti (vv.33-37). Il contenuto del discorso riguarda il compimento del “tempo” nel quale accade il Regno di Dio. Si nota un collegamento tra la proclamazione del vangelo di Gesù in Mc 1, 14-15 e il discorso escatologico. Nel primo e nel secondo caso c’è il passaggio dall’indicativo (presente o futuro) all’imperativo. Quello che comunemente è inteso come il tempo della fine è in realtà il tempo finale, o il fine ultimo del tempo. L’avvento del Regno di Dio coincide con la venuta del Figlio dell’uomo e l’invito alla conversione e al credere nel Vangelo si traduce nel vegliare per accogliere la volontà di Dio per metterla in pratica.

L’attenzione, che inizialmente si era posata sull’evento della distruzione del tempio, alla fine del discorso si concentra sulla venuta del Figlio dell’uomo, ovvero sull’instaurazione del regno messianico nel quale sono invitati tutti gli uomini. Il v.10 riveste un ruolo fondamentale nel discorso di Gesù perché fornisce la chiave di lettura del suo annuncio: «Prima è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni. L’avvento del Figlio dell’uomo che viene ad inaugurare il regno di Dio, quello che non avrà mai fine, è il fine della storia. Il Vangelo di Dio è stato proclamato da Gesù a partire dal battesimo al fiume Giordano: «Il tempo è compiuto ed è giunto Regno di Dio. Le azioni terapeutiche e liberatorie fatte da Gesù hanno reso testimonianza che le sue parole erano credibili. Chi ha creduto in lui ha sperimentato la potenza di Dio che perdona, dà la vita, libera, risana; tutto questo accade affinché chi incontra il Signore, e da Lui si lascia toccare il cuore, possa mettersi a servizio della volontà divina diventando a sua volta apostolo e testimone della misericordia.

Il regno di Dio cresce tra sofferenze e tribolazioni. Quello che agli occhi dell’uomo comune potrebbe sembrare il fallimento di una impresa di un “visionario”, in realtà è il compimento del progetto di Dio. Il suo potere, diversamente da quello esercitato dai governanti della terra, non si estende sui popoli per sottometterli, impossessandosi delle loro ricchezze, ma la sua autorità mira a radunare tutti gli uomini in un’unica famiglia.

Testo

La pericope liturgica si colloca nella fase finale del discorso di Gesù. Si riconoscono due parti: nella prima il discorso raggiunge il suo vertice parlando della venuta del Figlio dell’uomo (vv. 24-27) a cui segue la prima delle due piccole parabola, incentrata sull’immagine del fico e sul significato di cui essa è portatrice (vv. 28-32).

Al centro del discorso, che Gesù tiene in risposta alle domande dei discepoli, c’è la descrizione dell’avvento del Figlio dell’uomo, preceduta dall’annuncio della grande tribolazione (vv. 25-25). Il brano si ricollega a ciò che lo precede con l’espressione «in quei giorni» che richiama il tempo della tribolazione (v.19) che viene contenuta grazie agli «eletti» i quali, anche se provati dai falsi Messia ingannatori, contribuiscono ad accorciare i giorni del grande dolore. Il culmine della tribolazione è descritta con delle immagini attinte dalla tradizione apocalittica. Il sole e la luna sono i due luminari che secondo il racconto di Gen 1, 14-19, sono creati da Dio per regolare il ritmo del tempo caratterizzato dall’alternanza ciclica dei giorni, dei mesi e delle stagioni. Il sole, la luna e le stelle del firmamento sono associate a tutte quelle forme di potere che si sono alternate nella storia e raggruppate nella denominazione «le potenze dei cieli». Si tratta di potenze, secondo la visione biblica, suscitate da Dio allo scopo di educare, correggere o salvare Israele. La storia ha dimostrato, a dispetto delle pretese dei regnanti, la loro precarietà. Ognuno per il suo tempo ha riflettuto su una porzione più o meno grande della terra, lo splendore della propria gloria che però si è estinta. Le parole di Gesù, che riecheggiano quelle dei profeti, offre ai suoi ascoltatori non una semplice analisi del momento ma il punto di vista di Dio che abbraccia l’infinito, la totalità del tempo e dello spazio. Le immagini celesti non vogliono solo riferirsi alle super potenze, ma anche a quelle autorità, soprattutto quelle religiose, che, pur appartenendo alla sfera del sacro, hanno esercitato un potere che ha tradito il fine per il quale era stato loro affidato. Tuttavia, va precisato che lo sconvolgimento delle potenze dei cieli non è opera punitiva della mano divina ma la conseguenza del male che è insito nelle strutture di peccato, cioè di quel mondo che, pur uscito dalle mani di Dio, si è piegato alla logica del maligno ingannatore. La morte è conseguenza del male che, come un cancro, corrompe dal di dentro, causando la fine di tutto quello di cui diventa padrone. Quando le strutture di peccato giungono al capolinea rivelano che dietro di esse si nasconde l’ingannatore che viene smascherato. Il v. 24 inizia con una congiunzione avversativa «ma» («allà») che indica un cambiamento di tono che inaugura una nuova fase della storia, non più segnata dall’alternanza delle potenze dominatrici del mondo secondo la logica diabolica, ma dalla signoria del Figlio dell’uomo. Nella visione teologica di Marco il Figlio dell’uomo non ascende al cielo sulle nubi, ma discende dal cielo sulla terra abbracciando tutto il cosmo e coinvolgendolo nella trasfigurazione da lui recata. Le tenebre, causata dall’esaurimento della luce degli astri, è segno della morte che inghiottisce ogni realtà mondana rivelandone la natura precaria e passeggera. Tuttavia, la novità sta nella contemporaneità tra la fine di qualcosa creduta eterna e insuperabile e il sorgere di una potenza luminosa il cui splendore è inedita perché la nuova signoria è di una natura assolutamente diversa dai domini precedenti. L’instaurazione del Regno di Dio, promesso e compiuto, si manifesta agli occhi di tutti gli uomini, sia di quelli che hanno aderito al partito dell’anticristo ingannatore, sia degli «eletti» che sono rimasti fedeli a Dio soprattutto nel tempo della prova quando le tenebre li hanno avvolti e gli artigli della persecuzione li ha ghermiti. Tutti passano dal vaglio della tribolazione che dissolve e purifica. Avviene una crisi che divide quelli che «passano» con la gloria di questo mondo che passa, e gli «eletti» che, rimanendo sulla via della salvezza, sono «chiamati fuori» (ek-kaleo) e radunati a formare la Chiesa, ambito nel quale Dio esercita la sua regalità, da ogni parte della terra. Il termine greco che indica l’eletto nella tradizione biblica è associato a quello ebraico qadòsh che invece sta ad indicare il santo, ovvero ciò che è separato per essere riservato. Gli eletti sono quelli che non si sono contaminati e hanno preso le distanze da modelli di vita in contrasto con la volontà di Dio. Come la struttura di peccato non si identifica con una realtà specifica ma è trasversale ad ogni ambito della comunità umana, così anche gli eletti non provengono da una sola origine geografica e non appartengono ad un solo contesto religioso e culturale ma sono l’espressione dell’universalità dell’azione divina. La salvezza è offerta a tutti indistintamente, senza preferenze di persona, come orizzonte ultimo della vita dell’uomo sognata da Dio. I discepoli sono gli eletti chiamati da Gesù sin dalla prima ora; non è un caso, infatti, che il discorso di Gesù prende avvio dalla domanda dei primi quattro discepoli (13, 3; 1, 16-20) che egli aveva scelto e che mette in guardia perché non si lascino sedurre e ingannare dall’anticristo. Lo splendore della gloria del Figlio dell’uomo si manifesterà a tutti nell’ora della passione e della risurrezione che sono presentati come parte di un unico evento. Marco nel corso del suo vangelo elabora l’immagine del Figlio dell’uomo, già presente in alcuni testi dell’AT (per es. in Dn 7, 13-14, Zc 2, 10 (LXX)), in chiave estremamente positiva e di speranza; infatti, in 2,10 è sottolineata l’autorità del Figlio dell’uomo di rimettere i peccati, in 2,28 la sua signoria sul sabato e nei tre annunci degli eventi pasquali ( 8,31; 9,31; 10,33) la sua capacità di trasformare il dolore in via di salvezza. Dunque, in una visione che vede contrapposti in una lotta cruenta satana e le sue potenze, da un lato e Dio con il Figlio dell’uomo e i suoi angeli dall’altro, emerge in maniera evidente che il disegno di Dio non soccombe sotto il peso degli attacchi le maligno, ma al contrario, nel deserto della morte e tra le macerie delle strutture di peccato crollate apre una via di speranza che conduce gli eletti alla salvezza.

La seconda parte della pericope liturgica si apre con il riferimento all’immagine del fico la cui fioritura annuncia l’arrivo del tempo estivo che è anche tempo della mietitura, simbolo degli «ultimi giorni» nei quali avverrà la raccolta del grano e lo scarto della pula. L’allusione alla pianta di fico richiama quella di 11,14 la cui seccatura fin dalle radici permette si stabilire un nesso profondo tra la morte della pianta e la distruzione del tempio, fino a giungere all’evento della croce. In quell’ora il progressivo silenzio dei discepoli, della natura e di Dio (cf. 14, 62), diventa l’occasione di ascoltare e apprendere il più grande degli insegnamenti che viene dal Figlio dell’uomo, che è anche Figlio di Dio, crocifisso e risorto. Dalla pianta secca, simbolo del tempio diventato sterile che ha perso la sua gloria e ha esaurito la sua funzione, l’attenzione è invece sul ramo del fico sul quale stanno per spuntare i germogli, profezia di una nuova fioritura foriera di frutti. Anche Geremia usa l’immagine del ramo dell’albero (di mandorlo) per alludere al fatto che Dio «vigila» sulla sua parola per realizzarla. I discepoli osservano invece il ramo dell’albero di fichi le cui prime foglie spuntano nel periodo primaverile anticipando la fruttificazione dell’estate, tempo del compimento del processo generativo della pianta. Dunque, nel testo si viene a creare un’assonanza tra l’annuncio che «l’estate è vicina» e il vangelo di Gesù che proclama: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è prossimo» (1,14), ovvero che il Figlio dell’uomo è alle porte (v.29). L’allegoria o parabola del fico sta ad indicare l’evento pasquale della morte e risurrezione di Gesù. «Questa generazione» non passa prima che sia compiuto il mistero pasquale perché, grazie alla morte del Figlio dell’uomo, possa essere non più sterile e morto, come il tempio la cui fine è inesorabilmente segnata, ma rifiorire e portare frutto come il fico nel quale ritorna a scorrere la linfa della vita di Dio. Il processo generativo, come quello che porta il fico a fiorire e fruttificare, avviene nel silenzio e il mistero della vita diviene intelligibile solamente a coloro che coltivano la sapienza e la ricerca della volontà di Dio che ad essi si palesa attraverso l’umile segno del Figlio dell’uomo. Il fico è l’allegoria della generazione che cerca il Signore e non si lascia ingannare dai falsi messia. Nel silenzio della quotidianità si lascia pervadere e fecondare dalla Parola di verità che non si corrompe ma che è preziosa e duratura come l’oro, passato attraverso il crogiuolo. Il mistero pasquale è per il discepolo la chiave di lettura della sua storia che, benché travagliata, è il luogo in cui Dio si fa prossimo con la sua regalità. L’annuncio del vangelo, effettuato con la testimonianza della propria vita, è opera dei discepoli nei quali agisce la Parola di Dio. Essa ispira le parole e muove i gesti dei discepoli testimoni, i quali sono a servizio del compimento della volontà di Dio. Nel mentre si sviluppa nella storia il regno di Dio rimane ancora un segreto custodito nel cuore di Dio il tempo del ritorno finale del Figlio dell’uomo e il compimento della sua signoria.

MEDITATIO

Per ogni fine c’è un nuovo inizio

Ci stiamo avvicinando alla conclusione dell’anno liturgico che culminerà con la festa di Cristo Re, Signore dell’universo, e la Chiesa propone una riflessione sul tempo, quello che noi viviamo, non solamente tempo di cambiamenti ma tempo per cambiare mentalità e stile di vita. La pagina evangelica e quella del profeta Daniele hanno chiaramente il sapore agrodolce del linguaggio apocalittico. Non si tratta di profezie di sventura ma le immagini, certamente di forte impatto emotivo, intendono portare il nostro sguardo oltre l’apparenza e ciò che è destinato a finire. La nota dominante non è certamente la paura e il tono non è di minaccia, ma al contrario, la profezia apocalittica vuole offrirci uno sguardo sapienziale sulla realtà e alimentare la speranza. Essa risiede nella rivelazione che c’è un dopo oltre il tempo dell’angoscia e il dramma della tribolazione perché il tempo, come quello della gestazione, viaggia verso il suo compimento e lo spazio, come il grembo materno nel parto, si apre alla vita, al nuovo mondo. La Parola di Dio intende offrirci la chiave di lettura del nostro tempo, non per limitarci ad essere degli analisti ed opinionisti, ma per assumere il ruolo da protagonisti perché a noi spetta il compito di decidere dove collocarci, se dentro o fuori questo cambiamento d’epoca. La storia ci consegna la verità che è tale perché è ciò che rimane dopo il crollo delle ideologie e il tramonto delle potenze umane, anche quelle che sembravano intangibili. Ma è soprattutto la storia narrata dai Vangeli a rivelarci la verità e l’affidabilità della parola di Gesù, che rimane per sempre. Mentre tutto finisce solo la Croce rimane, segno dell’amore di Dio fedele ed eterno. La croce di Cristo, atto di amore di totale oblazione, è l’unica nostra speranza perché essa illumina la via d’uscita dalla fossa che noi stessi ci scaviamo, e nella quale cadiamo, con il peccato. Quanto più in alto e orgogliosamente puntiamo tanto più in basso sprofondiamo portandoci dietro tutti quelli che abbiamo legato a noi nel delirio dell’onnipotenza. Nella storia Gesù si identifica con i poveri, vittime degli abusi, dei maltrattamenti, della cultura edonistica e materialistica. La parola della Croce rivela che Dio si fa vicino ad ogni uomo e ad ogni donna piagati nel corpo e nello spirito. Il sacrificio di Cristo, offerto una volta per tutte sulla croce, segna la fine di un tipo di culto basato su oblazioni e doni materiali per inaugurare uno spirituale, perché mosso non dalla presunzione di meritare la salvezza o di apparire migliori agli occhi di Dio e degli uomini, ma dallo Spirito Santo. Egli è l’amore di Dio riversato nei nostri cuori da Gesù sulla croce. Solo questo amore ci cambia, ci fa maturare come persone feconde e portatrici di frutti di pace e gioia. La Parola di Dio è luce ai nostri occhi perché conosciamo la vocazione alla santità a cui siamo destinati. Assimilata, mediante l’ascolto e la meditazione, essa ci trasforma in luce che risplende attraverso le opere di giustizia ispirate dallo Spirito Santo. Avvolti nella notte oscura della tribolazione, sotto un firmamento buio e privo di punti di riferimento di un mondo nel quale gli uomini vagano perché hanno smarrito il senso del loro viaggio, la croce di Cristo brilla come l’astro che nasce dal cielo. La sua Parola è luce che non tramonta ma annuncia un giorno nuovo, un tempo nel quale i fratelli si stringono la mano e, aiutandosi tra loro, sono luce di consolazione e speranza l’uno per l’altro per continuare insieme il cammino che li conduce alla comunione dei Santi.

ORATIO

Signore Gesù,

amico dei poveri e compagno degli ultimi,

donaci il tuo Spirito di sapienza

perché tra le vicende della vita, spesso drammatiche,

che scuotono le fondamenta delle nostre certezze

e mettono in discussione i nostri principi di base,

possiamo scoprire che la Croce

è l’unica via della salvezza

che Tu tracci per noi e sulla quale ci guidi

come il buon Pastore fa con il suo gregge.

Non ci inviti a percorrerla per espiare i nostri peccati,

ma per essere sostenuti lungo tutto il cammino

dalla forza del perdono

che già ci hai offerto dalla croce

e che sempre doni a chi ti accoglie nei Crocifissi,

nostri fratelli più piccoli bisognosi di aiuto.

Tra le macerie di un mondo ferito da conflitti

rendici costruttori di pace e di riconciliazione.

Quando calano le tenebre della paura

e la ragione è accecata dall’odio

fa di noi lampade che, ricolme dell’olio della tua Parola,

diffondono la luce della carità.

Insegnaci ad essere tessitori di relazione

pazienti e delicati nelle nostre famiglie

ridotte a brandelli dalla incapacità di comunicare.

Riversa abbondante nel cuore la speranza

affinché al rantolo del mondo corrotto

possa seguire il vagito di una nuova umanità. Amen.