III DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) – Lectio divina
Es 20,1-17 Sal 18 1Cor 1,22-25
Signore nostro Dio,
che riconduci i cuori dei tuoi fedeli
all’accoglienza di tutte le tue parole,
donaci la sapienza della croce,
perché in Cristo tuo Figlio
diventiamo tempio vivo del tuo amore.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro dell’Èsodo Es 20,1-17
La legge fu data per mezzo di Mosè.
In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:
Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Il Decalogo della libertà
Dio affida a Mosè le clausole del patto di alleanza che non viene concordato con il partner per il semplice motivo che essa è unilaterale perché è frutto dell’iniziativa di Dio. All’origine dell’evento dell’esodo non c’è un merito o un accordo con Israele ma la libera e infinita bontà di Dio. Come la libertà dall’Egitto, anche la legge è un dono. La legge è data perché Israele custodisca e alimenti il dono della libertà. In cosa consista la libertà appare chiaro dalle due direttrici sulle quali si muove il decalogo: l’amore a Dio e al prossimo. Dio, che si era presentato come il Dio dei padri e della promessa, nel decalogo dice di sé di essere il liberatore. In quanto tale egli dona la legge; Israele non deve tornare alla schiavitù alla quale sarebbe condannato col peccato. Attuare la legge significa non solo riconoscere l’identità di Dio, quale liberatore, ma anche rinnovare in sé stessi il prodigio della liberazione. In questo senso non possono essere scissi giustizia e culto perché entrambi, e insieme, sono il memoriale della Pasqua.
Le dieci parole hanno una portata profetica perché rivelano la vocazione a cui ogni Israelita è chiamato. Il decalogo descrive ciò che, nel progetto di Dio, l’uomo non è bene che sia e anche quello che è bene che faccia. I precetti negativi declinano l’esigenza del rinnegamento di sé quale condizione per attuare quelli positivi posti nel cuore del decalogo. Al centro della Legge c’è l’amore a Dio e al prossimo che può essere riassunto nel comando di ricordare e onorare attraverso cui si concretizza la virtù del rispetto inteso come gratitudine e servizio.
Salmo responsoriale Sal 18
Signore, tu hai parole di vita eterna.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 1,22-25
Annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per gli uomini, ma, per coloro che sono chiamati, sapienza di Dio.
Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
La sapienza e la potenza della Croce
Nelle comunità cristiane di Corinto erano presenti credenti provenienti dall’ebraismo e dal paganesimo. Nella Chiesa convivevano insieme Giudei e Greci ai quali era stato annunciato il vangelo di Gesù, crocifisso e risorto. Essi erano chiamati costantemente a rendere ragione della loro fede perché spesso erano considerati stolti e deboli. Paolo ricorda che il Vangelo ha fatto presa sul loro cuore non perché è stato annunciato con un linguaggio retorico affascinante o sono stati offerti dei segni prodigiosi a sostegno della sua credibilità. Accogliendo il Vangelo essi hanno scoperto che la Parola della Croce rivelava loro il grande amore di Dio che si è fatto povero con i poveri, debole con i deboli per risollevarli dalla miseria e restituire la dignità di persona. Il suo valore non si misura sule conoscenze possedute o le competenze, ma sulla capacità di amare perché solo l’amore di Dio è veramente potente e sapiente. La Parola della Croce comunica l’amore di Dio che incide profondamente nella vita di chi crede nel Vangelo perché trasforma la qualità delle relazioni personali: dal chiedere per ottenere e dal cercare per possedere si chiede per accogliere il dono della grazia e si cerca per crescere e diventare generativi.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,13-25)
Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
LECTIO
Quello compiuto alle nozze a Cana di Galilea «fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2, 11). Il Vangelo di Giovanni è diviso in due parti, il vangelo dei «Segni» (capp. 1-12) e il vangelo della «Gloria» (capp. 13-21). L’evangelista conclude il racconto della Pasqua con la manifestazione di Gesù risorto a Tommaso il quale affermava che per credere alla parola degli apostoli esigeva di vedere il corpo di Gesù con i segni della passione. Il risorto dichiara beati quelli che credono pur non vedendo. Giovanni conclude: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20, 30-31). Gesù compie i segni perché chi crede in lui possa vivere come lui. Il segno per eccellenza è l’evento della croce attraverso il quale Gesù compie la volontà del Padre («Tutto è compiuto») e dona lo Spirito Santo («Chinato il capo diede lo Spirito»). La fede per Giovanni è un cammino insieme con Gesù, Cristo e Figlio di Dio, nel quale parla e opera il Padre. Credere è un processo educativo attraverso il quale lo Spirito Santo, donato dalla croce, ci forma ad immagine di Gesù. Il Vangelo di Giovanni è un itinerario di fede nel quale, soprattutto nella prima parte della narrazione, s’intrecciano gesti e parole che scandiscono il cammino, il cui vertice è la Pasqua di Gesù. Contrariamente agli altri tre racconti evangelici che parlano di un solo viaggio verso Gerusalemme per la Pasqua, il quarto vangelo invece riferisce tre pasque vissute da Gesù di cui la prima e la terza a Gerusalemme (2,13; 11,55), la seconda (cap. 6,4) a Cafarnao dove avviene il segno dei pani e il successivo discorso sul «Pane di vita». La terza Pasqua è riconosciuta da Gesù come l’ora di passare da questo mondo al Padre amando i suoi fino al compimento (Gv 13). La Pasqua, che significa passaggio, con l’evento della croce da festa dei Giudei diventa Pasqua di Gesù e di chi crede in lui.
I tre riferimenti alla Pasqua dei Giudei sono caratterizzati rispettivamente dall’immagine del tempio, del pane del Cielo, e dell’agnello pasquale. Dal culto inteso come offerta dei sacrifici a Dio si passa a vivere la liturgia come incontro con Dio che offre sé stesso come nutrimento per la vita.
Il gesto di Gesù, chiamato «purificazione del tempio», si colloca tra i primi due segni compiuti da lui, entrambi a Cana di Galilea, l’acqua trasformata in vino (2, 1-11) e la guarigione del figlio di un funzionario regio di Cafarnao (4, 46-54). In entrambi gli eventi gioca un ruolo importante la parola di Gesù. Nel primo caso Gesù dà il comando ai servi di riempire d’acqua le giare di pietra, cosa che gli inservienti fanno puntualmente; nel secondo caso Gesù annuncia: «Tuo figlio vive». Il funzionario del re, che aveva chiesto a Gesù di scendere a Cafarnao per salvare il proprio figlio prima che fosse stato troppo tardi, crede alla sua parola e fa ritorno a casa. Ha compreso l’ammonimento di Gesù che aveva detto: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (4, 48). Mentre è in cammino i servi gli portano la buona notizia che conferma la parola di Gesù.
Gesù, come ogni buon ebreo, compie il suo pellegrinaggio a Gerusalemme perché lì possa celebrare la Pasqua. La meta del cammino è il tempio, cuore della Città santa. La prima visita di Gesù a Gerusalemme è al tempio dove si apre davanti a lui una scena che non doveva essergli inedita. Nell’area del tempio sostavano i mercanti di animali che servivano per i sacrifici e i cambiamonete per le offerte in denaro, giacché non era possibile introdurre nel tempio monete con l’immagine dell’Imperatore. La reazione di Gesù è molto forte; con una frusta libera lo spazio sacro da ciò che sarebbe stato offerto in sacrificio e getta a terra le monete in segno di disprezzo. Ai venditori di colombe, la sola offerta che i poveri potevano permettersi, intima di non fare della Casa del Padre un mercato. La cacciata dei mercanti, come descritta dall’evangelista, più che essere fedele ad un dato di cronaca (è improbabile che un uomo solo abbia potuto cacciare i mercanti senza l’intervento dei soldati romani), è un segnale del fatto che si stia compiendo la Scrittura, come appunto accennano le parole di Gesù: «Non fate della casa del Padre mio un mercato!». In queste parole riecheggia la profezia di Zaccaria: «In quel giorno non vi sarà neppure un mercante (o un cananeo, cioè idolatra) nella casa del Signore degli Eserciti» (Zc 14,21). Nei vangeli sinottici la «purificazione del tempio» è narrata poco prima della passione, quindi a conclusione del racconto evangelico. In essi troviamo una citazione combinata di Is 56,7 e Ger 7,11: «La mia casa (di Dio) sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni», ma è diventata «un covo di ladri». Gesù considera il tempio la sua casa e quella del «Padre suo». I discepoli interpretano il gesto di Gesù alla luce del Sal 69,10 in cui il giusto perseguitato senza sua colpa ripone la propria speranza in Dio. La foga con la quale Gesù prende posizione contro il mercimonio che si consuma all’ombra del tempio non si spiega se non con la Scrittura. Gesù, visto come il difensore della purezza della fede alla stregua di Elia, è posto sullo stesso piano dei profeti. Tutti si erano battuti, pagando di persona e fino alla morte, perché la fede d’Israele non degenerasse in idolatria. Essa è la prima delle ingiustizie e, in quanto tale, quella che genera tutte quante le altre.
La versione del Decalogo del Libro dell’Esodo il divieto d’idolatria è il primo comandamento perché Israele ricordi che è stato salvato solo dal Signore e che Egli è l’unico Dio da amare. Dunque, Gesù richiama il rispetto dell’alleanza che Dio ha stipulato con Israele sul monte Sinai. Il Decalogo è la Parola che Dio offre all’uomo perché la libertà donatagli possa essere vissuta a pieno da lui.
Alla luce della Scrittura comprendiamo che ciò che anima Gesù non è la salvaguardia delle tradizioni e la purezza formale della fede, ma il suo intento è quello di essere a servizio del ristabilimento della relazione di alleanza tra Dio e l’uomo incrinato dal peccato. Lo zelo esprime un forte legame. La gelosia umana conduce a distruggere l’altro, mentre quella di Dio lo induce a consumarsi per amore affinché l’amato, che lo ferisce con il suo peccato, si salvi. Gesù stesso lo spiegherà a Nicodemo quando dice: «Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).
La seconda parte del racconto è una disputa tra i Giudei lì presenti e Gesù. I Giudei sono il fronte che oppone il rifiuto e la resistenza alla missione di Gesù. Sono quelli dei quali l’evangelista aveva detto nel prologo del vangelo: «Il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 10-11). I Giudei, simbolo degli increduli, si oppongono ai discepoli che invece sono il segno di coloro che con Gesù compiono un cammino di fede che è anche un itinerario di purificazione che parte dal distruggere la falsa immagine di Dio per lasciarsi edificare dallo Spirito come il vero tempio di Dio nel quale, come esorta s. Paolo, si offre in culto spirituale il proprio «corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio». L’apostolo continua esortando: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 1-2).
Come afferma s. Paolo in 1Cor 1,22 «i Giudei chiedono segni e i Greci cercano la sapienza», così nel nostro racconto i Giudei chiedono a Gesù di mostrare loro un segno che confermi l’autorità profetica del suo gesto. In Deuteronomio 18 viene fornito il criterio per verificare l’autenticità del profeta: se le sue parole si realizzano egli ha parlato in nome di Dio. Gesù, quale vero profeta, non compie i segni per dimostrare chi è ma i suoi segni sono opera di Dio attraverso i quali mostra la sua gloria e compie la sua promessa. La risposta di Gesù chiaramente rimanda alla sua passione. Parla di «questo tempio» che dopo essere stato distrutto sarà risuscitato in tre giorni. I Giudei pensano che Gesù si riferisca all’edificio e considerano impossibile che quella struttura così imponente costruita in quarantasei anni possa essere riedificata in tre giorni. Si noti che Gesù usa il verbo risorgere mentre i Giudei intendono l’azione di Gesù come ricostruire. L’evangelista, alla luce dell’evento pasquale, riconosce che il segno di cui parla Gesù è la risurrezione del suo corpo ad opera del Padre. Il suo corpo risorto è il nuovo Tempio, la Casa del Padre, dove l’uomo, distrutto il peccato e reso puro nelle mani e nel cuore (Sal 24, 3-5) può adorare Dio in Spirito e Verità (Gv 4,19s.).
La risurrezione di Gesù non è la ricostruzione o un restauro conservativo, ma è una nuova creazione che fa di Gesù il tempio in cui abitare con il Signore e del credente in Cristo il tempio nel quale Dio si rende presente in mezzo al suo popolo.
MEDITATIO
La Pasqua, un amore fuori dal normale
Ma che male facevano i venditori di animali e i cambia monete nel tempio? Senza ombra di dubbio nulla! Non commettevano nulla di illegale, anzi essi svolgevano un’attività a servizio del culto. E allora come si spiega il modo di fare di Gesù che sarebbe potuto apparire ai nostri occhi, se fossimo stati presenti, come una reazione isterica, quasi folle. In realtà c’è della follia, è quella dell’amore geloso che giunge a consumarsi per l’amato. Lo comprendono i discepoli quando lo Spirito Santo suggerisce loro il ricordo del Salmo 69: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». In fondo, il paradosso della fede giudeo-cristiana sta nella figura di Dio che elegge il più piccolo e insignificante tra i popoli e sceglie di stare dalla parte degli indifesi e dei poveri per salvarli. La storia d’Israele è la testimonianza di un Dio «misterioso» che non ha eguali nel panorama delle divinità degli altri popoli. La Pasqua è l’evento nel quale si rivela il Dio d’Israele che interviene non per riportare tutto alla normalità ma per rinnovare ogni cosa. La Pasqua è sempre una novità.
In tempo di crisi si spera di tornare alla normalità delle «sane» abitudini. Il gesto di Gesù mette in crisi il nostro concetto di normalità perché rivela il fatto che, sotto l’apparente rispetto della legalità si nasconde la triste verità per la quale ognuno è legge a sé stesso, curando i propri affari. Ci siamo abituati alla mentalità clientelare del «nessuno fa nulla per nulla», ma quello che è più drammatico è che la reputiamo normale quando invece normale non è.
Il gesto di Gesù non è quello di un esaltato che vuole distinguersi dagli altri o che vuole innescare polemiche. È spinto solo da un amore che certamente è fuori dal normale, o almeno da quella normalità a cui la mentalità materialista ci sta educando.
A Gesù viene chiesto il motivo del suo comportamento ed egli risponde con un comando: Distruggete questo tempio. La logica del mondo ci suggerisce scelte ispirate al conseguimento di obbiettivi di autorealizzazione che escludono il bene comune o, se esso è presente, diventa un modo di dire, per rendersi accettabile, ma che certamente non rende credibile. La logica del vangelo è espressa nella Parola della croce in cui Dio per amore si consuma al fine di darci la vita.
Siamo chiamati allora a distruggere l’idolo del nostro egoismo e gli altari dell’ambizione sulla quale sacrifichiamo le relazioni fraterne. L’amicizia non è un compromesso nel quale ci si spartisce il potere e ognuno ne prende una parte. Chi ama veramente e lavora per il bene comune deve essere disposto a perdere qualcosa di sé, a rinnegare sé stesso e le proprie ambizioni personali. Non possono coesistere autentico interesse al bene comune e cura dei propri interessi. Certamente in privato, facendo il proprio lavoro, si può fare del bene ma la cura del bene comune nella forma dell’impegno pubblico richiede la rinuncia a coltivare l’utile particolare. Il rischio è quello di trattare la cosa pubblica come un fatto privato, come una cosa propria, «cosa nostra!».
La mentalità pagana, che vive in molte ideologie culturali e partitiche, riscuote un certo successo nei sedicenti credenti e cristiani, paladini di una morale che viene smentita dalle loro stesse scelte personali e prese di posizione pubbliche.
La Carità, sembra dirci Gesù, non la si interpreta ma la si pratica e, praticandola, la si predica. La Pasqua di Gesù imprime al mondo una forza che determina il cambiamento di direzione del cuore. Da vivere per sé stessi al vivere per gli altri. Gesù denuncia il fatto che il peccato determina in noi «un cambio di destinazione d’uso». Creati per la comunione e per vivere la familiarità con Dio e la fraternità tra di noi, diventiamo concorrenti e avversari con il risultato di farci la guerra gli uni gli altri. La Pasqua di Cristo ci ha reso liberi ma solo confessando i nostri peccati ed estirpando la sua radice dal nostro cuore attraverso il digiuno, la preghiera e le opere di carità possiamo essere veramente Casa di Dio.
ORATIO
Signore Gesù, modello dell’uomo riconciliato, donami il tuo Spirito perché abbia la forza di rinunciare alle seduzioni dell’egoismo. La sapienza della Croce ispiri le mie scelte indirizzandole alla realizzazione del bene comune. Donami il coraggio di superare la paura della perdita e del distacco dalle cose di questo mondo e alimenta in me la fiducia che tutto ciò che è fatto per amore al Padre è cosa buona e rimane per sempre. Fammi partecipe della tua Carità per la quale hai rinunciato al tuo bene personale per rendere possibile una nuova creazione. Si compia una rinnovata Pentecoste che unisca nell’unico linguaggio dell’amore le menti e i cuori degli uomini.
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