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XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – LECTIO DIVINA

Is 50,5-9   Sal 114   Giac 2,14-18  

O Padre, che conforti i poveri e i sofferenti

e tendi l’orecchio ai giusti che ti invocano,

assisti la tua Chiesa che annuncia il Vangelo della croce,

perché creda con il cuore

e confessi con le opere che Gesù è il Messia.

Egli è Dio, e vive e regna con te,

nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro del profeta Isaìa Is 50,5-9

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso.

È vicino chi mi rende giustizia:

chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.

Chi mi accusa? Si avvicini a me.

Ecco, il Signore Dio mi assiste:

chi mi dichiarerà colpevole?

Servo perseverante nella prova

Il profeta, consapevole della missione che ha ricevuto da Dio di essere maestro in Israele, si dichiara innanzitutto discepolo. Comprende che il suo insegnamento non sarà basato su discorsi ma si esprimerà attraverso il suo modo di essere davanti a coloro che lo maltrattano. Dio gli rivela una verità scomoda che lo riguarda. Il sostegno che Dio gli garantisce non lo esenta dalle umiliazioni e non lo immunizza dal dolore, ma gli permette di rimanere fedele alla sua vocazione e all’amore per gli uomini, anche verso i suoi nemici. Il profeta Geremia ripete le parole che Dio gli ha rivolto chiamandolo al servizio profetico: «Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (Ger 1, 17-19). Gesù sente rivolte a sé queste parole e fa sue quelle del servo di Dio che non indietreggia davanti alla passione e alla morte ma chiede nella preghiera la forza di rimanere saldo nella fede e perseverante nel compiere la volontà di Dio. Gesù, come i profeti, non temono la condanna degli uomini e attraversano la prova certi che il Signore li conduce verso la vittoria. La salvezza è stare vicino a Dio e non lasciarci separare da Lui. San Paolo, interpretando i sentimenti di Gesù nella passione e quelli del discepolo che si trova nella prova, ricorda che: «Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio… Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?…  in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. (Rm 8, 31-37)

Salmo responsoriale Sal 114

Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.

Amo il Signore, perché ascolta

il grido della mia preghiera.

Verso di me ha teso l’orecchio

nel giorno in cui lo invocavo.

Mi stringevano funi di morte,

ero preso nei lacci degli inferi,

ero preso da tristezza e angoscia.

Allora ho invocato il nome del Signore:

«Ti prego, liberami, Signore».

Pietoso e giusto è il Signore,

il nostro Dio è misericordioso.

Il Signore protegge i piccoli:

ero misero ed egli mi ha salvato.

Sì, hai liberato la mia vita dalla morte,

i miei occhi dalle lacrime,

i miei piedi dalla caduta.

Io camminerò alla presenza del Signore

nella terra dei viventi.

Dalla lettera di san Giacomo apostolo Giac 2,14-18

La fede se non è seguita dalle opere in se stessa è morta.

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?

Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.

Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

La fede operosa nella carità

L’apostolo Giacomo non oppone la fede alle opere ma sviluppa il discorso iniziato precedentemente in cui esorta il credente che ascolta la Parola a metterla in pratica. A volte si è voluto erroneamente contrapporre Paolo e Giacomo. Il primo pone l’accento sul primato della fede intesa come condizione perché le opere siano veramente giuste e non azioni inique. Anche le opere della legge possono essere ingiustizie se compiute senza la fede, ovvero senza la consapevolezza dell’essere peccatori e incapaci di meritare la salvezza da soli attraverso le pratiche cultuali. La fede è l’esperienza dell’essere perdonati e giustificati da Dio il cui amore è gratuito, da sempre e per sempre. La fede non è un’esperienza religiosa privata e intimista e non può ridursi a una vaga credenza religiosa o a pratiche tradizionali fatte di parole vuote e gesti ripetitivi. La fede è esperienza di relazione con Dio che si traduce in relazione di amore con gli altri. Anche Paolo dice che la fede deve essere operosa nella carità. Le opere di misericordia sono la professione di fede più credibile perché, fedeli all’insegnamento e all’esempio di Gesù, si riconosce nel fratello e nella sorella più poveri Gesù da adorare e servire.

+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 8,27-35

Tu sei il Cristo… Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire.

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».

Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.

Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

LECTIO

La pericope inaugura il quarto atto della narrazione evangelica (8,27-10,52) il cui sfondo è il viaggio di Gesù insieme ai suoi discepoli dalla citta pagana di Cesarea di Filippo, legata al potere imperiale, alla citta santa di Gerusalemme, capitale del Regno davidico. Il quarto atto inizia, come anche i precedenti, con l’annotazione di carattere geografico e con un dialogo tra Gesù e i suoi. Nel primo atto Gesù chiama i primi quattro discepoli (1, 16-20), nel secondo costituisce il gruppo dei Dodici (3, 13-19) e nel terzo li invia in missione (6, 7-12).

Questo atto narrativo si apre con la domanda che Gesù rivolge ai suoi discepoli circa la sua identità. Dopo una prima risposta data da Pietro (8, 29), Gesù associa la sua persona al destino di passione, morte e risurrezione, che forma il «mistero pasquale», evocato nei tre insegnamenti (8,31; 9,31; 10, 33-34) che ritmano la narrazione del viaggio verso Gerusalemme e che sono associati al titolo cristologico «Figlio dell’uomo». Il primo insegnamento (8, 31) rivela l’identità del Messia alla luce degli eventi pasquali e presenta ai discepoli l’esigenza di fare propria la sua logica (8,26-9,29); il secondo insegnamento (9,31) ribadisce la logica dell’accoglienza e del servizio che deve guidare l’azione dei discepoli (9,30-10,16) che devono avere un’attenzione all’accoglienza particolare dei piccoli; il terzo insegnamento si concentra sulla necessaria spoliazione per un autentico servizio a Dio (10, 17-52).

La pericope liturgica è composta da due unità legate dal tema dell’insegnamento sull’identità di Gesù (vv.27-33) e dei suoi discepoli (vv. 34-35). La prima parte ha come centro l’annuncio del mistero pasquale (vv. 31-32a) incorniciato dal confronto tra Gesù e Pietro (vv. 27-30.32b-33).

L’episodio della guarigione del cieco di Betsaida operata in due momenti chiude il terzo atto narrativo e introduce il quarto che è caratterizzato dal cammino che i discepoli fanno verso Gerusalemme guidati da Gesù, il quale nella sua missione si era fermato fondamentalmente nel territorio della Galilea, territorio di frontiera con le popolazioni pagane del nord. Come Gesù conduce fuori il cieco dal suo villaggio (8,23), così esce fuori con i suoi discepoli verso i villaggi che formavano il distretto di Cesarea di Filippo. La città era situata presso le sorgenti del Giordano e fu trasformata dal tetrarca Erode Filippo nella capitale del suo regno. Suo padre Erode l’aveva ricevuta in dono dall’imperatore Augusto in segno di riconoscenza per la sua fedeltà. Il sovrano, grato all’imperatore, aveva cambiato il nome della città da Paneas in Cesarea, e sulla grande roccia rossa, sulla quale sorgeva il tempio al dio Pan e il cui incavo era considerato «la porta degli inferi», edificò un magnifico tempio in marmo bianco. In questa collocazione geografica, frontiera nella quale convivono paganesimo e giudaismo, inizia il cammino verso la Città Santa, capitale spirituale del giudaismo, nella quale si compirà la missione di Gesù che definisce anche la sua identità.

La strada che congiunge queste due città è lo scenario che fa da sfondo alla narrazione la quale si concentra in maniera particolare sul rapporto tra Gesù e i Dodici. Al progressivo svelarsi del mistero che si cela nella persona di Gesù e il grado di esigenza richiesto per la sequela, fa riscontro l’aumento della distanza affettiva con i Dodici che stentano a stare al passo. Il cammino di fede che Gesù fa fare ai discepoli richiede la necessità di prendere coscienza del fatto che i loro progetti sono lontani da quelli di Dio e che le scelte di Gesù non possono essere comprese a partire dalle loro attese. Il modo di comprendere il ruolo di Gesù nella propria vita determina il modo di concepire il proprio ruolo nei suoi confronti.

Gesù chiede cosa pensano gli uomini di lui, cioè qual è il «sensus fidei gentium». Infatti, col termine «uomini» si intende tutta la gente senza distinzione tra ebrei e pagani. La fede, infatti, non è un dono esclusivo di un popolo o una categoria di persone. È significativo che ritorni in scena Giovanni Battista proprio nel momento in cui bisogna mettere a fuoco l’identità del maestro. I discepoli sembrano raccogliere e dare voce alla conclusione a cui sono giunti, senza pregiudizio, coloro che hanno assistito o hanno sentito parlare delle opere di Gesù. È un parere pressoché unanime quello che lo inserisce tra i profeti immediatamente precedenti all’avvento del Messia. Naturalmente i Dodici non fanno menzione delle posizioni a lui contrarie che l’evangelista si era premunito pure di far conoscere al lettore. Quasi a dire che questi pareri contrari non avevano motivo di essere nemmeno considerati perché erano accuse gratuite e irragionevoli (2,7;3,22). La seconda domanda sollecita non la conoscenza dei Dodici circa il parere che altri hanno della sua missione, ma la condivisione del loro pensiero circa la sua identità. A questo punto è Pietro che parla a nome di tutti gli altri. La risposta dell’apostolo è anche il risultato delle domande che loro stessi si erano fatte: «che è mai questo?» (1,27) o «chi è costui?». Pietro cerca di dare una parola definitiva che chiude anche il confronto interno al gruppo degli apostoli sull’autorità di Gesù. Quella di Pietro è una professione di fede che segna un progresso rispetto al sensus fidei della gente. Considerare Gesù come Messia significa riconoscere che lui non è solo uno dei profeti che prepara il suo avvento ma è il Cristo promesso, compimento del progetto salvifico di Dio. A livello narrativo il riconoscimento di Pietro segna un punto cruciale di non ritorno. Il lettore sa chi è Gesù sin dal titolo del vangelo (1,1), ha ascoltato la voce del Padre che lo ha chiamato Figlio in occasione del battesimo al fiume Giordano (1,11); nessun uomo si è spinto così in avanti al punto di identificare Gesù con il Messia se non i demoni, che pure appartengono alla sfera del trascendente (1,24;3,11;5,7). La reazione che Gesù ha è in linea con quella avuta con i demoni (1,25; 3,12; 9,25). Il verbo sgridare evoca un’azione molto forte e decisa e che caratterizza anche il rimprovero rivolto a Pietro (8,33). Cuore del racconto è il contenuto dell’insegnamento che è riservato ai Dodici e che è definita «la Parola» detta «apertamente». La «parresìa» caratterizza l’annuncio, ovvero il vangelo di Gesù. In 1, 14-15 si riportano le parole di Gesù che annuncia il Vangelo di Dio: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è giunto». A questi indicativi seguono due imperativi «Convertitevi e credete nel Vangelo». L’insegnamento che offre ora Gesù chiarisce quello dell’inizio del ministero in Galilea. Il termine «parresìa» è utilizzato da Marco in tre occasioni che esprimono tre diversi aspetti del vangelo di Gesù. Nel contesto della guarigione del paralitico si vuole sottolineare l’efficacia della Parola con la quale si proclama l’avvento di Dio che viene nella sua misericordia per perdonare i peccati e rendere nota la dignità di «figlio di Dio» a coloro che sono nella condizione di sofferenza e povertà. In occasione dell’insegnamento in parabole Gesù spiega che esse sono il mezzo letterario attraverso cui far cogliere che la Parola di Dio s’intreccia con la vita ordinaria. In questo contesto l’uso del termine «parresìa» chiarisce che l’annuncio degli eventi pasquali sono anche un appello ad aderire alla logica ad essi sottostanti.

L’insegnamento di Gesù è incorniciato nei due confronti con Pietro, il primo in chiave positiva (vv. 27-30) e il secondo in chiave negativa (vv. 32b-33).

Il titolo che Pietro gli ha attribuito va letto alla luce della figura del «Figlio dell’uomo» il cui destino contraddice clamorosamente l’attesa messianica dai forti risvolti politici e sociali. Ciò che è chiaramente espresso nell’annuncio è il fatto che il destino drammatico e cruento del «Figlio dell’uomo» non sarà conseguenza di un’opposizione umana ma il compimento di un percorso voluto dal Padre che si rivela necessario, perché implicito all’interno delle Scritture (9,12; 14, 21.49). L’insegnamento di Gesù presenta la figura messianica del Figlio dell’uomo non in linea con le attese della gente e degli apostoli. La speranza nella mente degli uomini era circoscritta alla liberazione dall’autorità straniera e al riscatto dell’autonomia. Già nella sua missione in Galilea Gesù si era manifestato come un Maestro che apre alla sequela a giudei e pagani, che imbandisce una mensa dove oppressi e oppressori si trovano seduti alla stessa tavola, mettendo in discussione anche i principi fondamentali su cui si poggiava la tradizione legislativa. Le autorità, custodi e cultori della tradizione, avevano colto questa novità come una minaccia da combattere mentre altri come un’opportunità per destabilizzare un ordine stabilito dal connubio tra il potere politico e quello religioso. Ecco perché Pietro non accetta la parola di Gesù che, se da una parte anticipa la vittoria dei suoi oppositori, dall’altro annuncia che con la risurrezione la vita si afferma sulla morte. Dunque, Gesù innesca volontariamente una crisi in cui vengano fuori chiaramente le posizioni della propria speranza. Le tre categorie di oppositori sono elencate perché ciascuna di essa è rappresentativa della logica demoniaca di questo mondo. Il Sinedrio, organo decisionale della vita religiosa d’Israele, era l’istituzione più alta attraverso la quale la legge di Dio potesse essere tradotta nella condotta ordinaria del popolo. Fine del Sinedrio è il rispetto della Legge nella quale gli Israeliti riconoscevano un valore identitario. Nella tradizione ebraica si parla della sofferenza del Messia come se fosse un segno distintivo della sua appartenenza a Dio. Nell’annuncio di Gesù tutto, persecuzione e morte, punta sulla risurrezione, esperienza di ricreazione e rinnovamento del cuore, affinché l’uomo possa essere con la sua vita seme di novità nella realtà che vive. La confessione di Pietro personalizza l’attesa messianica vedendola compiuta in Gesù. Egli, invece sposta l’attenzione da sé verso il Padre. È Lui che ha l’ultima parola ed essa è una Parola di vita. Il fraintendimento è legato alla poca fede che stravolge la realtà cercando di piegarla alla propria volontà e strumentalizzarla. Il rimprovero di Gesù a Pietro esplicita questa forma di strumentalizzazione, che è tipica della mentalità degli uomini dalla quale anche Pietro e gli apostoli devono prendere le distanze. Questo è possibile solo che ci si colloca nei confronti di Gesù nella posizione del discepolo.

La seconda parte della pericope liturgica, dopo aver messo in chiaro la speranza che muove Gesù e la sua adesione alla volontà del Padre, nonostante la prospettiva della morte, passa a descrivere il discepolo e le scelte di vita che lo identificano come tale. Il rimprovero di Gesù è un duplice comando: prima il silenzio e poi la sequela. Il silenzio è la condizione per una scelta consapevole di discepolato. Il silenzio è la rinuncia a voler seguire il filo dei propri pensieri e progetti per seguire l’esempio di Gesù e la sua condotta di vita che si traduce nel percorrere non la strada più comoda verso il successo ma la via della croce che passa attraverso la sofferenza dell’abbandono e dell’essere scartati. Il dolore non è lo strumento necessario di autopurificazione e autorealizzazione ma l’esperienza che accomuna tutti gli uomini e che, abitata con la fede, diventa l’occasione grazie alla quale il cuore viene rinnovato dalla grazia divina e la volontà si orienta unicamente a fare la volontà di Dio. Seguire Gesù non significa solamente partecipare alla sua passione ma soprattutto viverla con la sua stessa speranza, ovvero la fede nella parola di Dio Padre che promette la risurrezione dai morti. Il rinnegamento di sé è la rinuncia ad opporsi a Dio mentre si professa l’incapacità di comprendere la portata degli eventi dolorosi che ci si trova a vivere. Il discepolo, nel desiderio di offrire un servizio, deve tener conto del pericolo, palesato nell’atteggiamento di Pietro, di volersi sostituire a Gesù cercando di armonizzare le sue scelte con le attese della gente. Il discepolo è colui che segue Gesù standogli dietro, cioè riconoscendogli il primato e la guida. «Prendere la propria croce» vuole dire assumere la logica del crocifisso ovvero quella che fa del comandamento dell’amore il principio ordinatore delle proprie scelte di vita e il loro criterio di verifica. Gesù non esige dai discepoli di cercare e procurarsi la sofferenza, ma di vivere le esperienze di crisi e di conflitto come occasione di povertà ovvero di mortificazione di tutto ciò che è basato su sé stessi per fondare la propria vita solamente sull’amore di Dio.

MEDITATIO

La fede non è un’opinione ma è la Verità incarnata nella vita

Nella guarigione del sordomuto si rivela il senso più pieno della salvezza che Gesù ha realizzato con la sua passione, morte e risurrezione e che si attualizza ogni volta che nel sacramento dell’Eucaristia celebriamo la Pasqua di Cristo. L’incontro con Gesù ci libera dalla malattia dell’egoismo e dell’autoreferenzialità che impedisce di intessere relazioni sane con Dio e con i fratelli. L’azione miracolosa restituisce all’uomo infermo la capacità di aprirsi all’ascolto della Parola di Dio per assimilarla e incarnarla nella sua vita; da qui ne consegue anche la possibilità di comunicare correttamente con gli altri usando il linguaggio della carità imparato dall’ascolto della Parola. Il sordomuto non si è lasciato solamente guarire nel corpo ma, seguendo Gesù che lo aveva preso per mano, gli ha permesso di sanarlo interiormente in modo tale da aprirsi alla grazia di Dio ma anche alla relazione con gli altri. Il sordomuto guarito riceve da Gesù il dono di essere libero e aperto come lui, capace di confrontarsi con gli altri. È proprio quello che fa Gesù con i suoi discepoli lungo la strada dove pone loro due domande. Ci verrebbe naturale pensare che Gesù voglia sondare gli umori della gente e dei suoi, magari cogliere le loro istanze e confrontare le opinioni. In realtà egli interroga non perché abbia bisogno di sapere e quindi regolarsi di conseguenza o aggiustare il tiro della sua missione in base alle attese della gente. Il dialogo che s’instaura non è un semplice scambio di opinioni tra le quali scegliere il punto di vista più conveniente. La Parola di Dio, nel momento in cui viene accolta attraverso l’ascolto, esige anche di essere meditata a partire dagli interrogativi che essa suscita e grazie ai quali possiamo finalmente conoscere i pensieri che sono custoditi nel nostro cuore e avere l’opportunità di comunicarli. Infatti, i discepoli riferiscono le opinioni della gente dalle quali emerge la frammentarietà della conoscenza di Gesù e il fatto che ciò che di lui si pensa è la proiezione delle proprie attese. L’opinione non è altro che il proprio punto di vita che coglie dell’altro solo il punto che maggiormente gli interessa. La fede non è un’opinione su Dio! La risposta di Pietro non si discosta da quella della gente se non per il fatto di avere la pretesa di essere un’opinione, spacciata per verità, che riassume anche le altre. Il silenzio imposto da Gesù suscita un ulteriore interrogativo che serve a Gesù per chiarire il fatto che la sua persona non può essere ridotta ad un aspetto della sua missione, ma c’è qualcosa di molto più grande in gioco. Egli infatti non è un novello Giovanni Battista che deve moralizzare la società in cui si trova e non è neanche un giustiziere con il piglio passionale di Elia o uno che si aggrega alla schiera di quei profeti che si presentano come latori di un messaggio divino. Gesù ordina il silenzio ai discepoli perché neanche la loro idea su di lui coglie il senso più profondo della sua persona e il significato della sua azione. Il silenzio è necessario davanti alla eterogeneità delle opinioni e all’ambiguità delle relazioni. Sì, anche quella con i discepoli è una relazione ambigua perché, nell’opinione espressa da Pietro, e nella reazione che ha avuto subito dopo, si rivela il tentativo di manipolare Gesù. L’insegnamento di Gesù non ha primariamente un carattere morale o legale, ma kerygmatico perché parla di sé e dell’evento della Pasqua nella quale egli soffrirà molto, sarà rifiutato dalle autorità, lasciato solo fino ad essere ucciso, ma alla fine risorgere. Il cuore del messaggio di Gesù e della sua persona è la Pasqua nella quale si rivela il vero volto di Dio e si comunica il suo amore. La Parola di Dio non è un concetto ma è un evento, non è un’opinione ma una persona che cammina insieme con gli uomini per condividere con essi la loro fatica, attese, sogni, fallimenti per partecipare a loro il suo amore e salvare la vita.

La presunta professione di fede di Pietro e il benevolo rimprovero che rivolge a Gesù manifestano il modo di pensare tipico degli uomini, ma che è proprio anche di Satana, e il loro tentativo di usare la parola di Dio per «vestire» e dare concretezza alle proprie opinioni dietro cui si nascondono intenzioni e pensieri utilitaristici. La parola di Gesù, che diventa evento e opera di salvezza nella Pasqua, invece dà corpo all’amore di Dio. Gesù annuncia la Pasqua nella quale si rivelerà la sua vera identità e si attuerà l’opera della salvezza. Egli è quel servo di cui parla Isaia che si lascia aprire l’orecchio da Dio accettando di appartenergli e di realizzare la sua volontà anche in situazioni che agli occhi di qualsiasi persona apparirebbe ingiusta e irrazionale.

Pietro è ricondotto alla sua scelta di lasciare tutto e seguire Gesù. In questo cammino Pietro, e con lui tutti quanti gli altri, hanno frainteso la familiarità con Gesù per cui si sentivano autorizzati a fare pressione su di lui inducendolo ad andare dietro le attese e gli umori della folla. Gesù non insegue nessuno ma accompagna coloro che accettano di seguirlo perché possano vivere i fallimenti e i drammi della vita alla luce della Pasqua in cui Dio interviene per salvare coloro che si affidano a lui. Gesù forma e prepara i suoi discepoli ad essere persone che nel dolore e nelle ingiustizie che la vita riserva possano avere un atteggiamento ispirato alla logica del dono di sé e non della soddisfazione personale. Le opere di cui parla Giacomo sono quelle della misericordia con le quali offriamo ai fratelli l’amore che conforta e che noi abbiamo ricevuto da Dio attraverso Cristo crocifisso. Questo amore, che non si limita alle parole, ma che si fa partecipazione e condivisione delle sofferenze degli altri, manifesta anche la fede, ovvero l’atto di fiducia con il quale offriamo la nostra vita nelle mani di Dio e quindi anche in quelle dei nostri fratelli.

ORATIO

Signore Gesù,

servo di Dio e operaio della Sua parola,

il tuo Spirito mi aiuti a distinguere

tra la mia opinione sulla fede e Te,

Verità che illumina ogni uomo,

tra le mie attese di giustizia e Te,

Via che conduce al Padre,

tra la mia idea di felicità e Te,

Vita del mondo.

Richiamami alle mie responsabilità,

ricordami la scelta di essere discepolo

e ministro della tua parola;

allontana da me la tentazione di usarla

per giustificare l’avidità di potere

o la ricerca della comodità,

per soddisfare la sete di vendetta

o per inseguire le illusioni mondane.

Aumenta ed educa la mia fede

perché essa non si riduca

a sterili enunciazioni di principi morali,

a formule stereotipate di preghiera

o a riti pieni di cerimonie ma prive di mistero.

Insegnami ad incarnare

la parola di Dio nella mia vita

perché essa sia conformata alla tua

e sia feconda di opere attraverso le quali

continua l’unica e perfetta azione di salvezza

compiuta da Te sulla croce. Amen.