XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina
1Re 19,4-8 Sal 33 Ef 4,30-5,2
O Padre,
che guidi la tua Chiesa pellegrina nel mondo,
sostienila con la forza del cibo che non perisce,
perché, perseverando nella fede e nell’amore,
giunga a contemplare la luce del tuo volto.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal primo libro dei Re 1Re 19,4-8
Con la forza di quel cibo camminò fino al monte di Dio.
In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra.
Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò.
Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
Il pane della speranza
Elìa viene raggiunto dalla minaccia della regina Gezabèle che giura vendetta per la morte dei suoi profeti sterminati per mano del Tisbìta. Sentendo la sua vita in pericolo, Elìa fugge verso il deserto per salvarsi dalla morte violenta ma, dopo appena una giornata di cammino, si arrende e si ferma attendendo la morte. Il profeta sente di non avere più nulla da offrire se non la sua vita che offre al Signore. All’ombra di una ginestra viene colto dal sonno perché stremato dalla fatica e dalla tristezza. L’angelo del Signore porta a Elìa del cibo invitandolo ad alzarsi e a mangiare. Il profeta accetta il dono di Dio ma poi torna nuovamente a rifugiarsi nel sonno, segno che la paura e la rassegnazione hanno ancora il dominio su di lui. È necessaria una seconda visita dell’angelo che spiega il perché di quel cibo. Esso, infatti, non è dato semplicemente per accompagnarlo fino al tempo della morte ma per sostenerlo nel cammino verso il monte Oreb, dove Dio ha la sua dimora. Come Israele nel deserto, così anche Elìa, è provato dalle difficoltà e si ferma. Dio si fa prossimo e dona l’alimento necessario per continuare il cammino incontro al Signore. Il cibo è segno di speranza che anticipa il fine del cammino della vita che non finisce con la morte ma con l’esperienza della intimità familiare. L’angelo è immagine di Dio che non abbandona i suoi figli perché abita il loro deserto, la condizione di aridità, scoraggiamento e mortificazione per offrire loro il pane della fraternità e l’acqua della consolazione.
Salmo responsoriale Sal 33
Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni Ef 4,30-5,2
Camminate nella carità come Cristo.
Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione.
Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
La carità, conformazione e imitazione di Cristo
Nel battesimo Dio segna il credente con lo Spirito Santo. Egli, è effuso nel cuore dove, quale Maestro interiore, insegna la via che conduce alla vera libertà. Al battezzato, che ha fatto la scelta di aderire alla fede nel Dio di Gesù Cristo, si richiede che sia obbediente alla voce dello Spirito. La parola di Dio, facendosi spazio nel cuore dell’uomo che l’ascolta e la medita, lo purifica e lo trasforma. La condotta di vita rivela se siamo seguaci dello Spirito, permettendogli di agire in noi, o piuttosto lo ostacoliamo vanificando la sua azione e rattristandolo. Il vangelo non è una semplice espressione verbale ma è una realtà visibile in Gesù Cristo e in coloro che veramente gli appartengono, perché la sua presenza traspare dalla loro vita. Lo Spirito Santo, come ha abitato Gesù e lo ha guidato nel cammino della carità, giunto fino a dare la propria vita per Dio e il perdono dei peccati, così rende presente Cristo Gesù nella carme dei battezzati. Essi lo ricevono come un dono, perché continua è l’effusione dello Spirito dal cuore del Crocifisso; nella misura in cui lo custodiscono e lo alimentano, lo Spirito configura la persona a Gesù la cui santità profuma i gesti e le parole di amore fraterno. I battezzati si chiamano cristiani perché nel loro modo di vivere Dio continua l’opera iniziata da Gesù e che si compirà nella comunione dei santi quando piena e perfetta sarà la carità.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 6,41-51
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.
In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
LECTIO
Il dialogo con i Giudei, al centro del brano evangelico di questa domenica, è preceduto da quello con la folla che si era messa sulle tracce di Gesù. La pericope liturgica precedente culmina nel v. 35 quando Gesù si rivela come «pane di vita», che non si corrompe, come la manna del deserto, ma che è capace di trasformare interiormente chi si nutre di esso affinché non viva solo per l’appagamento di sé ma per essere capace di amore oblativo.
Nei vv. 36-40, che fungono da transizione tra le due pericopi liturgiche, Gesù ritorna sul nesso tra vedere e credere. La folla si è concentrata sul gesto di Gesù di distribuire il pane e i pesci, senza domandarsi da dove abbia preso quel cibo. Tra la gente si sparge la notizia dell’evento, ma solo chi sta attorno a Gesù ha potuto seguire tutti i passaggi e soprattutto i suoi gesti: ricevere e rendere grazie, prima di distribuire a tutti i cinque pani e i due pesci, offerti dal giovinetto. La gente cerca Gesù per necessità mentre Egli vuole portarla alla consapevolezza di una fame più alta, di un bisogno più nobile, che non risponda solamente alla necessità fisiologica di riempire la pancia o di tirare a campare. Da qui la proposta di un itinerario di fede che conduca i discepoli a vivere una vita piena. Il dialogo con Gesù aiuta la folla a rileggere l’evento della moltiplicazione dei pani e dei pesci come ripresentazione della Pasqua ebraica e in particolare del dono della manna. Tuttavia, è necessario fare un ulteriore passo avanti che aiuti nel progressivo passaggio dal vedere al credere, dal sapere alla relazione personale. La gente continua ad attribuire a Gesù un valore strumentale mentre egli, lungi dall’essere ridotto alla sua competenza a risolvere i problemi, ha una peculiarità che consiste nell’essere portatore della vera sapienza, grazie alla quale si può intessere con Dio un rapporto personale profondo e vitale, come il suo. Gesù, che è in continua ricerca della volontà del Padre, interpreta la sua missione come quella del Maestro che insegna, con la sua condotta di vita, la via della vita vera. Ciò che gli Israeliti mettono in dubbio nei momenti più critici del tempo del cammino nel deserto è la benevolenza di Dio. La volontà di Dio è finalizzata al bene dell’uomo, ossia alla misura alta della vita. La volontà di Dio ha un respiro universale perché tutti sono chiamati alla santità, ovvero la condizione di vita dei risorti. A tale stato di vita conduce Gesù alle cui cure il Padre Dio affida gli uomini che sono tutti figli suoi. Da buon educatore il Maestro esercita la sua autorità puntando ad innalzare (in greco il verbo resuscitare può essere tradotto letteralmente con “far alzare” o “innalzare”) i suoi discepoli portandoli alla misura alta dell’amore, cioè la santità vissuta nell’amore oblativo.
La pericope è strutturata in una introduzione dell’evangelista che presenta il pensiero dei Giudei (v. 41), a cui seguono due discorsi diretti: il primo, quello dei Giudei che criticano Gesù (v. 42) e la sua replica (vv. 43-51). La risposta ai Giudei è introdotta con un imperativo negativo (v.43) a cui segue l’insegnamento che potremmo distinguere in due fasi, nella prima parla del discepolo credente (vv. 44-47) e la seconda è caratterizzata da due auto-presentazioni «Io sono» (vv.48-51).
Al v. 41 entrano in scena i Giudei; si tratta di un personaggio collettivo, come lo era la folla. I Giudei rileggono le parole di Gesù, con le quali si è presentato, accostando la sua persona alla manna donata da Dio. Essi criticano la sua pretesa di «venire dal cielo». I Giudei rappresentano gli increduli perché vittime di sé stessi e della presunzione di far coincidere la verità e la realtà con il proprio punto di vista. La mormorazione è il giudizio che pone una distanza tra il mittente del messaggio e il suo destinatario. La questione verte ancora sull’identità di Gesù che determina la percezione della sua autorevolezza. Non parla più chi ha beneficiato dell’opera di Gesù, ma chi crede di conoscerlo più in profondità perché sa di lui particolari della vita privata che la maggior parte ignora. I Giudei che mormorano contro Gesù sono i suoi familiari e conoscenti più stretti provenienti da Nazaret. Anche Natanaele (Gv 1,45-46), originario della vicina Cana di Galilea, dove Gesù avrebbe compiuto i suoi primi due segni, aveva espresso un giudizio negativo sui Nazaretani. Nazaret, infatti, era un villaggio povero e insignificante che non avrebbe potuto offrire nulla di buono per la formazione dei suoi abitanti. Questi Giudei dimenticano che Dio si era andato a scegliere il re da una famiglia sconosciuta di Betlemme e che aveva eletto un piccolo pastorello, scartando i fratelli maggiori molto più prestanti di Davide. Cosa dire del disprezzo di Golia alla vista di Davide privo di qualsiasi difesa e armato solo di una fionda. In realtà, i Giudei non solo giudicano Gesù ma anche coloro che stanno insieme con lui. Disprezzano Gesù per distogliere l’attenzione della gente e dei suoi discepoli. Essi sono i falsi pastori che si sentono insidiati nel loro potere e cercano di colpire Gesù e di disperdere il suo gregge. Il Signore, invece, si presenta come il vero pastore con la missione di accogliere coloro che il Padre gli affida con spirito di gratitudine e di prendersi cura di loro con gesti di gratuità e di condivisione. Egli, dunque, si distingue da quelli che cacciano coloro che chiedono aiuto e dei quali si disinteressano, abbandonandoli a sé stessi. I Giudei si comportano da non credenti perché non riconoscono in Gesù il dono di Dio e per questo lo rifiutano e lo abbandonano. I Giudei credono di essere più sapienti della massa che va dietro a Gesù e ai suoi miracoli.
La replica di Gesù inizia con un rimprovero che denuncia il peccato della mormorazione. È un peccato perché la mormorazione viene dal pensiero giudicante che deforma la realtà inducendo all’errore di valutazione e di espressione. Gesù legge quello che sta accadendo alla luce dell’opera di Dio. Chi va da lui, anche se spinto dalla fame, in realtà sta rispondendo non solo al proprio istinto ma anche alla voce del Padre che si fa udire nelle situazioni di povertà. La fame della gente diventa l’occasione perché la voce dello Spirito conduca all’incontro con Gesù. La volontà divina è immischiata con quella umana. L’uomo desidera una vita lunga, senza fine, e Dio vuole per l’uomo una vita bella, senza peccato. I Giudei possono conoscere il padre e la madre di Gesù, perché vengono dallo stesso paese o addirittura dal medesimo casato, ma con il loro modo di ragionare e di parlare dimostrano di non conoscere Dio Padre e la sua volontà. La differenza tra la folla e i Giudei è che la prima cerca Gesù, anche se spinta dalla fame, mentre i secondi lo rigettano perché il loro pregiudizio impedisce qualsiasi relazione. Il dialogo iniziale con la folla ha avviato un cammino di fede per diventare discepoli di Gesù. Questo itinerario d’iniziazione è ostacolato dalla mormorazione che cerca di screditare Gesù e di smontare la proposta cristiana. Ai (s)ragionamenti umani il Maestro oppone il pensiero di Dio espresso nei libri profetici: «Tutti saranno gli istruiti di Dio». Gesù chiosa questa citazione, che s’ispira a Is 54,13, attribuendo a Dio Padre il compito di parlare, istruire e fare discepoli. È proprio quello che sta accadendo: Dio rende nota la sua presenza paterna e comunica il suo amore provvidente mediante i gesti e le parole di Gesù. Egli, anche se non porta avanti il nome e l’attività di suo padre Giuseppe, fa conoscere il nome del Padre e porta avanti la sua opera mediante la missione che ha come oggetto null’altro che il compimento della benevolenza di Dio. Al contrario della convinzione dei Giudei di essere degli “eletti”, perché possessori di informazioni sconosciute ai non appartenenti al gruppo, Gesù rivela che la parola di Dio è un appello rivolto a tutti gli uomini perché facciano propria la Sapienza, ovvero il modo di ragionare che si traduce nell’imitare il suo stile di vita. Gesù invita innanzitutto ad ascoltare per poi parlare e agire, perché solo attraverso un ascolto senza pregiudizio si può essere discepoli del Padre e collaboratori nella realizzazione del suo sogno. La sincerità con la quale si ricerca la volontà di Dio diventa docilità nell’obbedienza. In tal modo s’instaura una relazione molto stretta grazie alla quale si avverte la presenza di Dio, si matura la capacità di fare discernimento e si acquisisce la forza di vivere secondo la Sua volontà. Gesù è credibile perché la conoscenza che ha di Dio non è superficiale, come quella che i Giudei hanno di lui, ma molto profonda e intima. È un privilegio che, se da una parte, lo colloca su un piano superiore agli altri uomini per la singolarità del suo rapporto con il Padre, dall’altra egli non ne fa motivo di vanto esclusivo. Infatti, proprio perché Figlio è inviato dal Padre, affinché la familiarità che li unisce si allarghi per abbracciare tutti gli uomini.
Come alla folla in ricerca del pane che sfama, così Gesù ripete l’invito a credere ai Giudei, che invece sono bloccati nel loro pregiudizio. Agli uni e agli altri viene offerta una parola di speranza e un annuncio di salvezza: credere è la condizione per la quale la benevolenza di Dio possa veramente compiersi. La tradizione ebraica espressa nel Libro della Sapienza afferma che «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sap 2,23-24). L’incorruttibilità, spiega il sapiente, è «stare vicini a Dio» (Sap 6,19). Dunque, Dio ha creato ogni uomo perché viva vicino a Lui e viva di Lui. L’opera del Diavolo è finalizzata ad ostacolare questo progetto e a separare l’uomo da Dio. L’incredulità è opera del demonio e porta alla morte che spezza i legami affettivi con Dio e rompe il rapporto di alleanza con Lui. Gli appartiene, infatti, chi, nella lotta tra Dio e Satana, parteggia per il secondo seguendo la sua logica e agendo secondo il suo esempio. L’incredulità è nei fatti la scelta di essere discepolo del demonio. Al contrario, credere significa scegliere di rispondere alla chiamata di Gesù per stare vicino a lui diventandogli discepolo e servitore. Egli non si presenta come il messaggero di un padrone che esige offerte, sacrifici, rispetto di regole e condizioni in cambio dei quali corrispondere il suo favore, ma è il dono di Dio grazie al quale si può vivere da figli suoi, figli amati.
Cosa intende Gesù per credere? Ripercorriamo brevemente le occorrenze del verbo nel dialogo con la folla. La prima volta è Gesù che, rispondendo alla domanda su quali fossero le opere di Dio da compiere, esorta a credere in colui che Dio ha inviato nel mondo. La folla chiede un segno affinché possano credere in lui. Gesù replica che egli stesso è il segno perché è «il pane della vita». Al v. 35 credere è messo in parallelo con il verbo «venire a me», dunque credere vuol dire avvicinarsi a Gesù per stare con lui ed entrare in un rapporto di intimità familiare. Questa condizione si crea quando si obbedisce alla voce del Padre che parla al cuore della persona in sincera ricerca della volontà di Dio. Nel progetto del Padre, infatti, chi si accosta al Figlio che ha inviato nel mondo viene da lui accolto e istruito. Gli occhi di chi crede riescono a riconoscere nell’uomo Gesù il Figlio di Dio inviato dal Padre per salvarlo, ovvero per ricevere da Lui quella vita che il cuore anela. L’amicizia con Gesù alimenta la speranza dell’unione con Dio. Credere, in sintesi, vuole dire intessere una relazione personale con Gesù che introduce nell’intimità familiare divina vissuta da commensali al banchetto del cielo.
La ripetizione dell’autopresentazione «Io sono il pane della vita» (v. 35. 48) introduce un passo ulteriore del discorso di Gesù che culmina con l’autorivelazione: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo» (v. 51) che mette insieme «pane della vita» e «pane disceso dal cielo». Alla folla che richiama il segno della manna nel deserto, Gesù spiega che non fu Mosè a darlo ma Dio, il quale, non ha solamente agito nel passato ma continua ad operare dando il pane, quello vero. Mangiando i pani essi si sono saziati come i loro padri nel deserto durante il cammino dell’esodo. L’evento dei pani e dei pesci non è la semplice ripetizione di un miracolo ma è parte della storia nella quale Dio vuole condurre il suo popolo verso una meta più alta, la vita eterna. Per questo non dà semplicemente la versione aggiornata della manna, ma nel segno del pane rivela l’offerta di un dono più grande perché non è corruttibile, come la manna o il pane che sazia la fame del corpo ma non è capace di nutrire lo spirito.
Gesù riprende il parallelismo con l’esperienza dei padri nel deserto: essi hanno mangiato la manna, hanno sperimentato la benevolenza di Dio, ma sono morti. La morte è la conseguenza del peccato: prendere senza restituire. I padri hanno goduto della grazia di Dio ma non hanno corrisposto al suo amore. Infatti, il peccato d’Israele consiste nella mormorazione contro Dio, nell’ingratitudine che si traduce in avidità ed egoismo che sono alla base dell’ingiustizia sociale. Il peccato e la conseguente morte dei padri rivela la reale consistenza della manna. Il miracolo è un segno che appella la coscienza alla conversione, ovvero a orientare la propria vita verso Dio. La manna nella tradizione ebraica è associata alla Legge. Le opere della Legge, sia quelle cultuali che sociali, non danno la salvezza. I profeti spesso stigmatizzano la falsità della fede di coloro che confidano in sé stessi e nell’opera delle proprie mani. Il pane vero si distingue dal falso perché è l’unico capace di fare verità, ovvero di realizzare la volontà di Dio. Nelle parole di Gesù il verbo mangiare non fa riferimento all’azione con la quale la persona individualmente si nutre per vivere ma evoca la bellezza della condivisione del pasto in cui si creano e si rafforzano i legami di alleanza tra le persone. Gesù aveva dato ordine agli apostoli di far accomodare la folla per poi passare lui stesso tra i commensali per servirli (Gv 6,11). Ora, dice Gesù, egli è la vera mamma dal cielo, il dono di Dio dato per ricevere la vita del Padre. In Gesù si rivela l’amore fedele di Dio che non si arrende davanti alle infedeltà del popolo, che non si vendica per i tradimenti, ma che persevera nel giuramento di fedeltà. Dio è amore eterno, per questo in sé ha la vita eterna. Vita dell’eterno, amore eterno, vita eterna sono sinonimi. Chi si lascia nutrire da Gesù e di Gesù partecipa alla relazione d’amore che unisce il Padre e il Figlio. Essa è come una sorgente d’acqua viva (Gv 4). Mangiare e bere sono gesti con i quali l’uomo introduce in sé qualcosa che gli manca. L’uomo non è capace di darsi la vita, né di amare fino a dare la propria vita. Raggiunge la misura alta dell’amore e la pienezza della vita chi si lascia nutrire da Dio e accoglie il dono che lo trasforma in Colui che si dona per amore.
MEDITATIO
Il Pane del cammino
Elia fugge dalla regina Gezabele che vuole ucciderlo. Il profeta, stanco del cammino, vorrebbe morire piuttosto che cadere nelle mani degli uomini. Si ferma deciso a lasciarsi andare lentamente alla morte ma l’angelo del Signore gli offre il nutrimento di cui ha bisogno. Egli pensa che sia il sostentamento necessario in attesa dell’arrivo del Signore ma in realtà il secondo intervento dell’angelo gli spiega che Dio gli manda il pane del cammino, che è ancora molto lungo, affinché giunga alla santa montagna. Questa pagina dell’Antico Testamento fa da sfondo a quella del Vangelo nella quale è messo a tema l’identità di Gesù e la sua missione. Di lui la gente mormora perché conoscono le sue origini e non accettano che lui si presenti come l’inviato di Dio. In verità, Gesù non è solamente un angelo che offre il pane di Dio, ma egli stesso è il Pane della vita che il Padre dona ai suoi figli perché il loro cammino giunga a compimento e non si perdano per strada. Dio aveva mandato i profeti a istruire tutti sul suo progetto d’amore grazie al quale la vita, anche se appare come un vicolo cieco o un deserto arido e senza senso, diventa un vero pellegrinaggio verso la «santa montagna». Meta del cammino di Elia è il monte di Dio e termine del pellegrinaggio di Gesù e di coloro che lo seguono è la risurrezione. Il culmine del cammino è il sacrificio della propria vita che inaugura la vita eterna e la totale comunione con il Signore. Dalla storia di Abramo in poi siamo consapevoli che, come dice la lettera agli Ebrei, non abbiamo qui una dimora fissa, ma siamo pellegrini sulla terra verso il Cielo. La risurrezione di cui parla Gesù non è un evento puntuale ma un dinamismo attraverso il quale si diventa figli di Dio. L’Eucaristia ci apre un orizzonte di luce mentre percorriamo sentieri spesso bui e impervi dei quali non intravediamo la conclusione. Nell’Eucaristia Dio discende dal cielo per farsi nostro nutrimento e sostegno nel cammino della vita. La via dell’uomo diviene la via di Dio perché la Sua vita diventi la nostra. In questo modo il pellegrinaggio terreno della vita diventa un cammino «nella carità» che punta direttamente al Cielo. Nella tradizione biblica l’immagine della via o del cammino è associata alla Legge. I comandamenti garantiscono una condotta di vita retta. Ma questo non basta. Anche Elia, profeta integerrimo, ha sperimentato il dramma della malattia dell’anima che porta a desiderare la morte piuttosto che la vita. Gesù non è solo la «via» che conduce al Padre ma anche il «pane della vita» che ci permette di progredire nella carità superando tutti gli ostacoli e le prove che incontriamo lungo il cammino. Non è sufficiente sapere cosa sia il bene e come farlo ma è necessario anche volerlo realizzare e perseverare nella carità. La fede mi fa conoscere la meta, la speranza mi sostiene nel cammino, la carità mi fa progredire nella santità e mi fa amare «nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore».
ORATIO
Signore Gesù, che ti sei fatto ospite e pellegrino tra gli uomini perché chiunque incontra Te riconosca la voce e il volto del Padre che ti ha inviato, perdona la mia arrogante presunzione che ostacola il cammino verso il Cielo e togli dal mio cuore ogni traccia di malignità che impedisce allo Spirito di abitarlo. Tu vedi quante umiliazioni mi scoraggiano e confondono il cuore che diventa arido di bei desideri. Donami la speranza che illumina la meta del mio pellegrinaggio e traccia la linea della mia condotta di vita perché la tristezza dei fallimenti si muti in gioia di servirti ogni giorno con amore. Trasforma le mie attese stanche e passive, che degenerano in pretese, in desiderio di pace e anelito di comunione fraterna. Rinvigorisci la mia volontà perché, guidato dalla Parola e alimentato dall’Eucaristia, ritrovi forza ed entusiasmo nel testimoniare ai fratelli, con le parole di tenerezza e i gesti di benevolenza, che Dio ci è Padre e noi tutti siamo figli suoi amati. Amen.
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