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XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – LECTIO DIVINA

Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17

O Dio, tutte le creature sono in tuo potere

e servono al tuo disegno di salvezza:

rendi salda la fede dei tuoi figli,

perché nelle tempeste della vita

possano scorgere la tua presenza forte e amorevole.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro di Giobbe Gb 38,1.8-11

Qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde.

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:

«Chi ha chiuso tra due porte il mare,

quando usciva impetuoso dal seno materno,

quando io lo vestivo di nubi

e lo fasciavo di una nuvola oscura,

quando gli ho fissato un limite,

gli ho messo chiavistello e due porte

dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre

e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».

Il valore educativo del limite

Chiamato in causa da Giobbe, che intenta un processo contro di Lui secondo il procedimento giuridico del «rib», Dio replica a colui che stimava un uomo giusto e che satana aveva messo alla prova spogliandolo di tutto. Quella di Giobbe non è una ribellione a Dio perché nella sua disperazione, dopo aver controbattuto alle posizioni dei suoi tre amici, cerca il contraddittorio diretto con Dio per chiedergli conto della sorte malvagia da Lui riservatagli. Il silenzio di Dio è lo spazio che a lui viene riservato dai tanti ragionamenti che nel racconto sono proposti di volta in volta dai tre saggi, o presunti tali. Il dibattito tra Giobbe e i suoi interlocutori cede il passo a Dio a cui spetta l’ultima parola. In realtà, nessuno dei personaggi umani, pur parlando di Dio o millantando una conoscenza di lui, arrogandosi il diritto e il dovere di prendere le sue difese davanti alle accuse di Giobbe, può dire di aver veramente conosciuto Dio. Egli si manifesta con un atto di parola attraverso la quale offre la chiave di lettura degli eventi naturali e storici nei quali s’iscrivono le storie delle singole persone. Il tentativo degli uomini, spacciato per saggezza, è quello di racchiudere nei propri schemi mentali e principi sapienziali l’identità di Dio, compiendo al tempo stesso un’opera di sublimazione delle umane aspirazioni frustrate dai limiti imposti dalla creaturalità. In fondo, il problema capitale, è la non accettazione dei limiti e quando essi si palesano, anche in modo drammatico nella forma della sofferenza e della morte, incontrano la naturale resistenza dell’uomo che li codifica come assurdi. Eppure, il Dio d’Israele che è innanzitutto Creatore la prima cosa che fa è mettere dei limiti. Il racconto della creazione descrive l’azione creatrice come un atto della parola che f esistere ma al tempo stesso separa. La creazione non è solamente l’atto attraverso il quale una cosa passa dal non essere all’esistere ma anche l’evento con cui ciò che inizia ad esistere esiste per o coesiste. Questo passaggio dall’esistere all’esistere con e per l’altro struttura il passaggio della creazione che coinvolge tutto e trova nell’uomo il suo vertice. Dio crea mettendo dei limiti perché dal caos si passi al cosmos, ovvero all’ordine. Questa è l’autorità di Dio a cui fa riferimento la presentazione che fa di se stesso a Giobbe. Il vento e l’acqua primordiale sono due elementi che nel caos originario dominavano l’esistenza. Giobbe accusa Dio di essere un padrone dal comportamento incomprensibile e ingiusto; ingiusto perché incomprensibile. Dio spiega che la sua signoria si coniuga con l’autorità. Quest’ultima non è l’imposizione della propria volontà ma l’atto proprio di chi fa crescere e favorisce la maturazione. Dio pone dei limiti alle realtà naturali perché esse dialoghino tra loro senza la pretesa di vincere sull’altro o convincere l’altro delle proprie idee. Questo limite lo pone a se stesso per favorire la relazione dialogica con l’uomo, partner dell’alleanza. Dunque il limite ha una funzione educatrice finalizzata alla relazione d’amore tra le persone. Il dialogo ha il potere di contenere la naturale tendenza a “straripare” invadendo il territorio altrui. L’uomo non ha gli strumenti propri per darsi un limite al proprio io “straripante” ma li ottiene entrando in dialogo con Dio e assimilando la sua sapienza.

Salmo responsoriale Sal 106

Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.

Coloro che scendevano in mare sulle navi

e commerciavano sulle grandi acque,

videro le opere del Signore

e le sue meraviglie nel mare profondo.

Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,

che fece alzare le onde:

salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;

si sentivano venir meno nel pericolo.

Nell’angustia gridarono al Signore,

ed egli li fece uscire dalle loro angosce.

La tempesta fu ridotta al silenzio,

tacquero le onde del mare.

Al vedere la bonaccia essi gioirono,

ed egli li condusse al porto sospirato.

Ringrazino il Signore per il suo amore,

per le sue meraviglie a favore degli uomini.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 2Cor 5,14-17

Ecco, son nate cose nuove.

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.

Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

L’incontro con Cristo che sconvolge e rinnova la vita

Alcuni accusano Paolo di essere un folle, quasi un posseduto o invasato. Questa stessa accusa è stata mossa a Gesù. L’Apostolo con una certa vena ironica ribatte che è vero, è posseduto, non da uno spirito impuro che l’ha reso stolto, ma dall’amore di Cristo che fa di lui una nuova creatura. Gesù non è morto come un eroe che ha sacrificato sé stesso compiendo un gesto estremo autoreferenziale perché basato sulla sua volontà salvifica. Paolo sottolinea il valore universale della morte di Gesù perché ha offerto la sua vita per tutti, cattivi e buoni. Gesù è morto per la riconciliazione e la vita di tutti gli uomini, senza distinzione di meriti. Perciò a tutti è offerta la possibilità di unirsi alla sua morte per partecipare anche alla sua vita risorta. La risurrezione è la pienezza della novità di vita che si è realizzata grazie al suo sacrificio sulla croce. La novità di vita del cristiano si rivela nell’offrire la sua vita per Dio a vantaggio di tutti gli uomini. L’uomo vecchio che vive per sé stesso va incontro alla morte alla quale affida l’ultima parola della sua esistenza. Mentre chi risponde all’amore di Dio per lui con la vita donata per Dio permette che si realizzi la promessa di vita eterna. Paolo, condivide la sua esperienza di uomo amato e perdonato, salvato, redento, morto al peccato e risuscitato per diventare una creatura sempre nuova, ovvero ad immagine e somiglianza di Cristo. Questa esperienza di fede determina il modo di vedere, giudicare e agire. Paolo stesso allude alla conoscenza di Gesù prima d’incontrarlo personalmente. Quell’incontro ha segnato la morte di Saulo, che ragionava secondo la carne, che si arrogava il diritto di perseguitare i cristiani, e la nascita di Paolo, il quale vede, giudica e agisce alla luce della Parola che gli illumina la mente e il cuore. L’incontro sconvolgente non è avvenuto una volta per tutte ma si è rinnovato ogni volta che, gustando il sapore amaro del fallimento, ha aperto il cuore ad accogliere la persona di Gesù le cui sembianze erano quelle dei fratelli e delle sorelle che Dio ha messo sulla sua strada e lui sulla loro.

+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 4,35-41

Chi è costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.

Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Lectio divina

Nel racconto evangelico di Marco si contano tre traversate del lago di Tiberiade la prima delle quali avviene dopo l’insegnamento di Gesù che racconta tre parabole. I protagonisti sono sempre Gesù con i suoi discepoli e la crisi è un elemento constante presente in tutte e tre le traversate. Il passaggio all’«altra riva» avviene tra il discorso in parabole, di cui il sonno di Gesù sembra riprendere l’immagine del seminatore che attende lo sviluppo del seme affidato alla terra, e l’incontro con l’indemoniato e la sua liberazione che invece pare sia un’eco della manifestazione di autorità esercitata sulle acque agitate del mare e sul vento impetuoso. Lo sfondo letterario del brano potrebbe essere riconosciuto in testi come il Sal 107.

È giunta la sera e sta per terminare una giornata. Ci si trova davanti ad un passaggio di tempo, da un giorno ad un altro, e di luogo, così come il seme dalla mano del seminatore passa nelle profondità del terreno. Gesù invita a passare all’altra riva. Il fluire del tempo non può essere determinato dall’uomo ma Gesù sembra voler offrire un contenuto al transito da una giornata all’altra e uno stimolo al passaggio dall’ascolto della Parola alla vita. Da ciò che accadrà nella traversata il lettore comprende anche il suo valore educativo. L’altra riva è quella orientale abitata da una popolazione a maggioranza pagana. Prima di compiere la traversata bisogna congedare la folla numerosa che aveva ascoltato l’insegnamento di Gesù e salire sulla barca. Il Maestro aveva insegnato da una barca che gli era stata messa a disposizione, ma quando bisogna partire i discepoli lo accolgono nella loro. Gesù avrebbe potuto salire su altre barche e invece sceglie di essere preso su quella dei suoi discepoli. Essi lo prendono sulla barca «così com’era», dice l’evangelista. Questo inciso è stato interpretato in vari modi. Potremmo comprendere questo dettaglio come il segnale di una certa fiducia che i discepoli nutrono per Gesù. È come dire che non gli fecero troppe domande in seguito all’invito a passare all’altra riva pur sapendo di andare incontro alla notte.

Durante la traversata la situazione si complica a causa di una tempesta di vento che alza le onde riversandole nella barca al punto che in breve tempo essa è colma d’acqua. Alla concitazione dei discepoli in quei momenti fa da contro altare il sonno di Gesù che invece sta a poppa sul cuscino. I discepoli, in preda al panico e convinti di stare sul punto di morire, si accostano al Maestro recriminandogli la sua indifferenza nei loro confronti. La fiducia, nata dall’ascolto del suo insegnamento e dimostrata da essi nel prendere Gesù con loro, sembra infrangersi non solo a causa delle forze ostili che si stanno abbattendo su di loro, ma soprattutto per l’inoperosità di Gesù che dorme profondamente incurante di quello che sta accadendo. Quelli che sono sulla barca con Gesù lo appellano con il titolo di Maestro, riconoscendone l’autorevolezza della guida, e identificandosi con i discepoli suoi seguaci. In realtà i discepoli sono come il seme che, immerso nella terra, segretamente cresce di passaggio in passaggio. Ma questo gli uomini non lo comprendono subito perché il processo di crescita, che mai avviene senza dolore, li fa sentire soli e abbandonati. Una volta svegliato Gesù rivela che la sua parola è autorevole anche sulle forze ostili della natura, come lo era stato contro il demonio nella sinagoga di Cafarnao e lo sarà nella terra dei Gheraseni contro la legione di diavoli che posseggono un pover’uomo.

La poca fede rimproverata ai discepoli è anche la denuncia del fatto che in essi la Parola ascoltata necessita di essere ancora meglio assimilata affinché nelle crisi, come quella, i discepoli non devono lasciarsi vincere dalla paura. La fede è la spinta a mettere in pratica la parola di Dio e senza di essa la paura scoraggia nel praticarla e nel farla fruttificare. «Passiamo all’altra riva» non è solo una pia esortazione ma una chiara indicazione di direzione e senso da dare all’impegno personale e comunitario anche quando questo è contrastato da difficoltà che inducono a pensare di essersi ingannati o di essere stati presi in giro.

Non è vero che nulla è cambiato nei discepoli dopo quella esperienza perché dalla paura, causata dalla tempesta e che li ha portati a interrogare il Maestro con toni forti, come in precedenza avevano fatto i suoi primi oppositori, essi passano ad avere timore di Gesù e a porsi una domanda sulla sua identità. A ben vedere l’interrogativo finale diventa anche una verifica dei discepoli della propria capacità di obbedienza e in ultima analisi della fede che li abita. Se il vento e il mare obbediscono alla sua parola e addirittura i demoni non sono capaci di opporgli resistenza e cedono, come mai i discepoli hanno difficoltà a credergli?

Calmata la tempesta sul mare e ritornata la bonaccia ora è il momento di riportare la calma dentro se stessi e nella barca, tra i gli stessi discepoli. Come fare? 

Meditatio

Credenti si diventa … attraverso le crisi

Dal terreno in cui è immerso il seme si passa all’acqua del mare attraversata dalla piccola barca sulla quale c’è Gesù con i suoi discepoli. Il Maestro, in una sua parabola, aveva detto che il Regno di Dio è come un seme che, una volta sprofondato nella terra, diventa frutto attraverso passaggi graduali. Questa immagine comunica una serena pace propria dei ritmi della natura che si svolgono in gran parte nel silenzio. Lo stesso vale per il processo di sviluppo biologico del corpo, ma i dinamismi della vita umana sono più articolati. I passaggi più delicati non avvengono mai in maniera indolore e il racconto della tempesta sedata ne è un esempio. L’evangelista sembra dire che la vita spirituale, non meno importante di quella fisica, non si sviluppa e non cresce «spontaneamente», quasi che sia riducibile ad un fattore culturale ricevuto sin dalla nascita, dipendente dal luogo o dalla condizione in cui si vive e da cui si è condizionati. La fede, sebbene sia un dono gratuito, richiede di essere coltivata perché fruttifichi anche in condizioni precarie, come suggerisce l’immagine delle acque, e sfavorevoli, come indica l’esperienza della tempesta. La fede è un fatto personale, ma non strettamente individuale, la cui crescita chiama in causa le relazioni con gli altri e con il Signore, in maniera particolare. Dopo essere stati attorno al Maestro e averlo ascoltarlo, condividendo il pane della sua Parola, bisogna continuare a seguirlo anche quando invita a lasciare le sicurezze della terra ferma e imbarcarsi per passaggi avventurosi e verso orizzonti sempre più ampi. Gesù da una parte indica la pazienza dell’agricoltore e dall’altra propone ai discepoli di essere audaci come i naviganti. Pazienza e audacia devono contemperarsi affinché la prima non diventi tendenza ad accomodarsi nelle situazioni accontentandosi di «coltivare il proprio orticello» e la seconda non si trasformi in arrogante temerarietà che confonde la sete di potere con il regno di Dio e il servizio che lo caratterizza.

I discepoli recepiscono l’invito di Gesù e lo accolgono sulla barca «così come era», convinti che basti eseguire le indicazioni del Maestro per essere padroni della situazione. Ci saranno state altre tempeste che i pescatori hanno affrontato, ma quella sembra essere destinata a mettere la parola fine alla loro vita. Colui che li ha invitati a mettersi in cammino e che è salito con loro sulla barca, nel momento più critico c’è ma è come se non ci fosse, perché dorme. Tutto il peso della lotta per vincere le forze della natura che si sono scatenate contro la barca sembra ricadere sulle loro spalle. Lì essi sperimentano la loro impotenza e gridano a Gesù per svegliarlo, recriminandogli la sua silenziosa indifferenza davanti al dramma. Nella solitudine misuriamo le nostre risorse e le troviamo gravemente mancanti, sia nel contrastare le forze ostili interiori che ci minacciano da dentro, sia anche nel realizzare i comandi di Dio. Il mare è simbolo del male con i suoi misteriosi e nascosti desideri di grandezza e con le sue manifestazioni di orgoglio violento e distruttivo. La tempesta è l’immagine del conflitto interiore che si scatena a causa dell’egoismo e dell’arroganza che ci abitano e che, per quanto ci sforziamo di tenere a bada, a volte ci sovrastano.

Nella prova l’atteggiamento di Gesù si contrappone a quello dei discepoli. Il primo dorme, lasciandosi vincere dalla stanchezza e cedendo «le armi» con fiduciosa obbedienza, i secondi si lasciano afferrare dalla paura e guidare dalla rabbia. Gli uomini vorrebbero «svegliare» Dio e riportarlo nella propria realtà perché intervenga. Gesù invece si «desta», ad indicare il passaggio dal sonno della morte all’autorità che mette un limite alla minaccia mortifera del male. Gesù sulla croce ha sperimentato il silenzio di Dio e ha provato il suo abbandono. In quel contesto di paura e di rabbia ha affidato il timone della sua barca al Padre, certo di essere salvato non dalla morte, ma attraverso di essa. La croce è l’altra riva a cui Gesù conduce, lì dove la sofferenza ci dà la misura della nostra umanità piccola come il seme ma al contempo la fede fa di questi limiti lo strumento per lasciarci amare da Dio e salvare. È Lui che mette un limite al male di cui siamo capaci e ci fa fruttificare nell’amore fino al dono totale della nostra vita.

Oratio

Signore Gesù,

Tu che hai sperimentato

l’abisso della solitudine

e le tenebre dell’abbandono,

ascolta il grido della mia preghiera

carica di paura e di rabbia.

Aiutami a vivere le prove della vita

come passaggi necessari attraverso i quali

coltivare il seme della fede

perché cresca fino a diventare

frutto maturo e abbondante

nella carità fraterna.

Quando la preoccupazione diventa ansia

che serra la gola e toglie il respiro,

donami il tuo Spirito, perché non ceda

alla tentazione di scoraggiarmi

e di abbandonare la barca,

la comunità dei miei fratelli,

al suo destino.

La tua Parola metta un limite

alla forza dell’orgoglio e dell’ira

che scatenano dentro di me

reazioni violente

e che portano con loro

distruzione degli affetti

e rovina delle relazioni.

Trasforma la mia paura in timore

e l’orgoglio in fiducia,

muta il dubbio in speranza

e il mio grido di aiuto

in canto di lode,

la mia preghiera di lamentazione

in inno di ringraziamento. Amen.