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IV DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C) – Lectio divina

Mi 5,1-4   Sal 79   Eb 10,5-10  

O Dio, che per attuare il tuo disegno di amore

hai scelto l’umile figlia di Sion,

dona alla Chiesa di aderire pienamente al tuo volere,

perché, imitando l’obbedienza del tuo Figlio,

si offra a te in perenne cantico di lode.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro del profeta Michèa Mi 5,1-4

Da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele.

Così dice il Signore:

«E tu, Betlemme di Èfrata,

così piccola per essere fra i villaggi di Giuda,

da te uscirà per me

colui che deve essere il dominatore in Israele;

le sue origini sono dall’antichità,

dai giorni più remoti.

Perciò Dio li metterà in potere altrui,

fino a quando partorirà colei che deve partorire;

e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.

Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore,

con la maestà del nome del Signore, suo Dio.

Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande

fino agli estremi confini della terra.

Egli stesso sarà la pace!».

Il Messia umile

L’oracolo del profeta Michea parla dell’avvento del Messia, il quale ha chiaramente delle caratteristiche regali che richiamano la figura di Davide. Egli, infatti, era originario di Betlemme e, quando viveva da giovane nel suo villaggio, era pastore. Tuttavia, la caratteristica principale del Messia davidico è l’umiltà, la quale emerge non tanto come elemento caratteriale del personaggio ma come dato teologico legato alla sua origine divina e umana. Infatti, le origini del Messia sono comuni ad ogni uomo, in quanto generato e partorito da donna, ma al tempo stesso la sua missione affonda le sue radici nell’eterno disegno di Dio. Il Messia non è solamente colui che porta la pace ma è egli stesso la pace perché in lui avviene la riconciliazione e la salvezza: la riconciliazione, perché i figli ribelli ritornano nella comunione con Dio, e la salvezza, perché la vocazione alla santità, che Dio ha stabilito nella sua benevolenza per ogni uomo, diventa realtà. Gli uomini che finalmente si riconoscono figli di Dio e fratelli tra loro realizzano la volontà di Dio e al tempo stesso attualizzano l’opera di Gesù Messia che è per loro capo e modello di vita.

Salmo responsoriale Sal 79

Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.

Tu, pastore d’Israele, ascolta,

seduto sui cherubini, risplendi.

Risveglia la tua potenza

e vieni a salvarci.

Dio degli eserciti, ritorna!

Guarda dal cielo e vedi

e visita questa vigna,

proteggi quello che la tua destra ha piantato,

il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Sia la tua mano sull’uomo della tua destra,

sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Da te mai più ci allontaneremo,

facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.


Dalla lettera agli Ebrei Eb 10,5-10

Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà.

Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice:

«Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,

un corpo invece mi hai preparato.

Non hai gradito

né olocausti né sacrifici per il peccato.

Allora ho detto: “Ecco, io vengo

– poiché di me sta scritto nel rotolo del libro –

per fare, o Dio, la tua volontà”».

Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

L’obbedienza alla volontà di Dio e il culto spirituale

Il culto stabilito per Legge, al tempo della vecchia alleanza, era immagine di quello vero voluto da Dio e inaugurato da Gesù Cristo. I sacrifici e le offerte prescritti dalla Legge, soprattutto quelli della Festa dell’Espiazione, non hanno il potere di rimettere i peccati ma sono il “ricordo annuale” della condizione di peccato nel quale l’uomo rimane. Il ricordo dei peccati è la consapevolezza di essere lontani dal realizzare la vocazione e la missione affidata da Dio. In Cristo è Dio stesso che viene incontro all’uomo perché si realizzi la sua vocazione e la sua missione di essere suo figlio. Con l’incarnazione Dio diventa missionario e Cristo entra nel mondo assumendo la nostra carne mortale e solidarizzando con l’uomo in tutto, eccetto il peccato. Cristo riceve dal Padre lo stesso corpo dell’uomo diventando fratello di tutti. Gesù ringrazia il Padre per il dono dell’umanità (il corpo) e, con essa, dei fratelli, per amore dei quali Egli condivide con loro tutto fino ad offrire sé stesso al Padre, affinché essi possano partecipare della sua figliolanza divina. In Gesù, Dio si fa uomo e, offrendo il suo corpo sull’altare della croce, manifesta di essere il Messia atteso grazie al quale essere liberati dai peccati per essere veramente capaci di vivere da figli di Dio, realizzando in tal modo il disegno divino.

Precedentemente l’autore della Lettera agli Ebrei aveva detto che Gesù Cristo è il vero sommo sacerdote che ha offerto non il sangue dei sacrifici degli animali ma il suo, alludendo al martirio sulla croce. Ora parla dell’offerta del corpo inteso come la totalità della persona, spirito, anima e carne. La citazione del salmo 40, 7-9 è posta sulle labbra di Gesù nel contesto di un dialogo con il Padre del quale condivide la volontà di amare e salvare gli uomini. Questo dialogo orante riprende quello che si dice in Eb 5, 7-10: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek». L’obbedienza, quale offerta e unione della propria volontà a quella di Dio, è il sacrificio spirituale gradito a Dio. San Paolo lo chiarisce parlando ai Romani: «Vi esorto fratelli per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Il peccato consiste nel sottomettere le proprie membra alla legge del male rendendo l’uomo schiavo di Satana. Gesù Cristo, con il sacrificio del suo corpo, inaugura un nuovo culto nel quale viene effuso lo Spirito, ovvero la benedizione di Dio, grazie al quale chi lo riceve può a sua volta unire la sua vita a quella di Cristo nell’unico ed eterno sacrificio di lode. Ogni qualvolta uniamo la nostra volontà a quella di Dio e la mettiamo in pratica nell’amore fraterno offriamo il sacrificio gradito a Dio che risuona come una lode perenne ed espande la sua fragranza come incenso odoroso.


+ Dal Vangelo secondo Luca Lc 1,39-45

A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.

Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

LECTIO

Contesto

La pericope liturgica s’inserisce nei primi due capitoli del vangelo di Luca, chiamati «dell’infanzia», e più in generale nella prima parte della narrazione evangelica (1,5-4,13) caratterizzata un triplice confronto tra Gesù e Giovanni il Battista, prima bambini e poi adulti. Il racconto presenta tre paralleli: l’annuncio della nascita di Giovanni e quella di Gesù, seguito dall’incontro delle madri (1,5-56); la narrazione della nascita, della circoncisione e della crescita di Giovanni e di Gesù (1,57-2,52); L’attività del Battista cui segue il battesimo, la genealogia e le tentazioni di Gesù (3,1-4,13). Il primo parallelo mette a tema la differenza d’identità tra i due bambini e la reazione umana alla rivelazione di Dio. Giovanni, quale precursore del Messia, ha il compito di ben disporre il popolo ad accogliere il Signore che viene. Il sacerdote Zaccaria non crede alla parola dell’angelo Gabriele al quale chiede elementi concreti che ne garantiscano l’affidabilità. Invece, Maria di Nazaret crede all’annuncio di Gabriele e aderisce al progetto di Dio con entusiasmo che è proprio di chi, pur consapevole dei rischi per la propria vita, confida nel Signore e nella sua potenza. Infatti, nel Magnificat Mìriam di Nazaret canta la forza della misericordia di Dio che capovolge le situazioni mandando all’aria i progetti dei potenti di questo mondo per portare avanti il suo con la collaborazione del popolo dei poveri. Anche l’anziana Elisabetta, visitata da Maria, riconosce sia la potente azione di Dio, sia la fede della giovane parente.

Testo

La narrazione dell’evento della Visitazione di per sé va dal v. 39 al v. 56 del primo capitolo; infatti la pericope è incorniciata dagli elementi spaziali (la regione montuosa, la città di Giuda, la casa) insieme ai verbi di movimento (alzarsi, mettersi in cammino, entrare nella casa) dei vv. 39-40 a cui corrispondono i verbi rimanere e ritornare insieme al riferimento temporale dei tre mesi (v.56). Al cuore del racconto c’è l’incontro tra le due donne (vv. 39-41), le parole di Elisabetta (vv.42-45) e quelle di Maria (vv. 46-55). La pericope liturgica, quindi, si ferma alla seconda scena delle tre che compongono la narrazione della Visitazione.

Nei giorni immediatamente successivi all’evento dell’annunciazione, con il concepimento di Maria per opera dello Spirito Santo, quando ancora non erano visibili i segni della gravidanza, la giovane di Nazaret si mette in cammino verso la regione della Giudea dove abitava Zaccaria e sua moglie Elisabetta. Sei mesi dopo che l’angelo Gabriele aveva annunciato a Zaccaria la nascita di un figlio e la sua missione, lo stesso messaggero rivela a Maria la gravidanza inaspettata di Elisabetta, che tutti ormai ritenevano sterile. La maternità di Elisabetta è presentata come opera di Dio a cui nulla è impossibile. Si tratta di una benedizione speciale che ricorda come Dio sorprende sempre con il suo amore, il quale viene riversato sull’uomo non in misura dei suoi meriti ma della misericordia divina. Maria crede alla rivelazione dell’angelo riguardo ad Elisabetta la cui gravidanza diventa per lei un segno grazie al quale comprende che anche la sua maternità, nonostante i rischi che potrebbe correre, è una benedizione di Dio. L’adesione di Maria alla parola-promessa di Dio non è solo verbale ma anche gestuale. All’entusiasmo con il quale ha detto il suo Amen (il modo ottativo del verbo accadere esprime la gioia che nell’originale ebraico suona col termine amen – credo), corrisponde la fretta o sollecitudine con cui ella inizia il suo lungo viaggio che dalle colline della Galilea la porta alle montagne della Giudea.

La meta del viaggio diventa chiaro al lettore solo quando l’evangelista dice che Maria entrando nella casa di Zaccaria rivolse il saluto a Elisabetta. Il saluto di Maria è cuore della prima parte del racconto, infatti, la sua importanza è data dal fatto che il termine è ripetuto tre volte, due volte da parte del narratore e una volta sulla bocca di Elisabetta. Non è noto il contenuto del saluto, a differenza di quello dell’angelo a Maria. L’accento è invece posto sull’effetto che ha la parola di Maria. Infatti, il saluto genera un evento che viene narrato due volte: la prima dal narratore (vv. 41-42) che rivela il sussulto di Giovanni nel grembo di Elisabetta la quale viene colmata di Spirito Santo e di conseguenza esclama a voce alta; la seconda volta è Elisabetta che racconta della danza di gioia del suo bambino. Si tratta dunque di una vera propria esultanza espressa col corpo motivata dalla presenza del Messia. La voce di Maria è l’ascolto di Elisabetta sono i mezzi attraverso cui la presenza, ancora nascosta del Figlio di Dio, porta il dono della gioia nello Spirito. Si compie quello che l’angelo aveva detto a Zaccaria: «sarà colmato di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre» (1,15). Nella vita ordinaria, simboleggiata da un normale saluto scambiato tra conoscenti, s’innesta lo straordinario intervento di Dio che impregna di santità ogni cosa con cui viene a contatto e innesca dinamismi di gioia. È lo Spirito Santo che rende capace di riconoscere la presenza di Dio che porta la gioia. Giovanni ed Elisabetta, consacrati dallo Spirito Santo, ognuno a modo proprio, diventa profeta perché godono di una conoscenza speciale: il bambino con la danza e la madre con la parola benedicente. L’esultanza è una forma di lode fatta con il corpo, piuttosto che con la parola. Giovanni, danzando nel grembo di Elisabetta, benedice il Signore che viene, mentre Elisabetta con la parola benedice Dio, riconoscendo la sua benedizione in Maria («Benedetta»), e benedice Maria dichiarandola «beata» per la sua fede.

Se per Maria la maternità di Elisabetta è il segno che la conferma nella fede nel Dio che fa, non ciò che vuole l’uomo, ma quello che a lui è impossibile, la ragazza di Nazaret è per Elisabetta il segno della presenza di Dio. La parola dell’angelo non solo rivela a Maria la bella notizia della gravidanza dell’anziana parente, ma soprattutto con essa offre il dono dello Spirito per accoglierla come il vangelo dell’azione straordinaria di Dio, vero autore della fecondità della coppia ormai avanti con l’età. La funzione dell’angelo è presa da Maria che con il suo saluto innesca il dinamismo dello Spirito; per cui non solo Giovanni comprende di stare alla presenza del Signore e reagisce muovendosi al ritmo della gioia, ma anche sua madre viene coinvolta e ispirata nel conoscere e testimoniare il motivo di tanta gioia. Quello di Elisabetta è un inno profetico che non preannuncia un evento futuro ma canta la presenza consolante di Dio. L’angelo a Nazaret aveva salutato Maria chiamandola «piena di grazia», Elisabetta reagisce alla parola di Maria chiamandola «benedetta» dal «frutto benedetto» del suo amen a Dio. L’espressione «benedetta tra le donne», che riecheggia alcune pagine bibliche (Gdc 5,24; Gdt 13,18; Ct 1,8) riconosce che Maria è «la più benedetta» tra tutte le donne perché grazie a lei viene al mondo «il Benedetto» attraverso cui la benedizione è riversata su tutta l’umanità, predestinata da Dio sin dall’origine a essere «figli adottivi santi e immacolati» (cf. Ef 1, 3-5). Non si tessono le lodi di Maria in base a qualche sua opera ma Elisabetta ribadisce la parola dell’angelo Gabriele che rivela a Maria ciò che la Grazia ha operato in lei fin dal momento del concepimento, dunque in maniera assolutamente gratuita. All’origine della fede di Maria, espressa con il suo amen, vi è sempre la benedizione di Dio. La grazia di Dio e il libero consenso di Maria, suscitato dallo Spirito, l’hanno resa madre del «Signore», titolo col quale si confessa che Gesù è il Messia. Maria è beata perché ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. La visita ad Elisabetta nasce dall’accoglienza con fede della Parola che diventa scelta operativa di prossimità. Maria mette in pratica la Parola ed evangelizza non pianificando la missione ma lasciando che Dio parli a tutti attraverso il suo corpo, la sua voce e la sua storia. Maria è beata, non perché privilegiata, ma perché si è messa subito a servizio della Parola facendosi prossima nella carità.

MEDITATIO

Attesa carica di gioiosa speranza

Dopo il suo sì all’angelo dichiarandosi serva del Signore, in Maria si compie quello che il messaggero divino le aveva profetizzato: «Lo Spirito Santo ti coprirà con la sua ombra». Prima che lei stessa si accorga di aver concepito il figlio sente forte l’impulso dell’amore che la spinge a mettersi in cammino per andare da sua cugina Elisabetta. Maria non vive l’attesa ripiegata su sé stessa, presa dalla paura, ma, pervasa dalla gioia della fede, lascia la sua casa e affronta un viaggio tutt’altro che comodo, per prestare servizio all’anziana parente. La fede di Maria si manifesta nella carità operosa e generosa. È un gesto semplice, ma non a buon mercato. Non sono mancate resistenze e tentativi per dissuaderla da quel viaggio, ma ha prevalso la carità. L’attesa di Maria, diversamente da quella di Elisabetta che si era mantenuta riservata in casa assumendo un atteggiamento più contemplativo, è più dinamica. La giovinezza di Maria si coniuga con l’anzianità di Elisabetta. Lo Spirito valorizza le caratteristiche di ogni età della vita. La fede di Maria si traduce in opere di misericordia corporale mentre quella di Elisabetta, maturata nella contemplazione, diviene opere di misericordia spirituale. La fretta di Maria non è ansia o curiosità, ma è la gioia che mette le ali ai piedi e fa del senso pratico, tipico del genio femminile, il mezzo per mettere in atto subito quello che lo Spirito le suggerisce nel cuore. Se la fede di Maria anima la misericordia con la quale si fa prossima ad Elisabetta, la sua carità divine la testimonianza di fede più bella, tanto che la pace che pervade tutto il suo corpo passa attraverso la sua parola e giunge a toccare il cuore di chi l’ascolta. Maria saluta Elisabetta porgendo a lei l’augurio della pace: shalom. Non è una semplice parola di cortesia o di circostanza, ma una benedizione. Solo la fede, che nasce dall’incontro con il Signore e dall’adesione alla sua volontà, permette alle parole di comunicare la vera pace che tocca il cuore e lo contagia di gioia.

Maria diventa per Elisabetta quello che l’Angelo Gabriele è stato per lei, messaggera del Vangelo attraverso il quale Dio si fa presente. Le due donne sono accomunate non solo dal dono della maternità ma anche dalla fede che le porta a cercare il senso profondo degli eventi. Maria s’interroga sul senso del saluto dell’angelo e chiede come poter realizzare ciò che le è stato proposto ed Elisabetta s’interroga sul significato di quella visita e dell’emozione avvertita ascoltando la voce di Maria. Le due donne sono insieme immagine della Chiesa nella quale i fratelli e le sorelle si cercano e s’incontrano per vivere la comunione nella speranza e condividere nella carità la gioia che la fede semina nel cuore.

ORATIO

Signore Gesù, Dono benedetto del Padre,

gioia che pervade il cuore di chi crede in Te,

di chi ti accoglie con fiducia

e con entusiasmo ti porta ai fratelli

come il dono più prezioso da condividere,

vieni a visitarci con la tua pace.

Rendici, come Maria,

solleciti messaggeri del Vangelo

senza lasciarci vincere dalle prove e dai pericoli

che ci spaventano e ci scoraggiano.

Donaci la beatitudine della fede

della giovane e dell’anziana madre

perché anche noi

possiamo cercare la volontà di Dio,

accettarla e riconoscere la tua presenza

nella voce di chi porta la tua Parola

che dà consolazione e pace.

Il tuo Spirito riempia la nostra attesa di speranza,

dia ai passi del nostro cammino

il ritmo della danza

e il nostro cuore possa intonare

il canto di lode e di ringraziamento

per le meraviglie che operi

per la nostra salvezza. Amen.