II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – Lectio divina
Is 62,1-5 Sal 95 1Cor 12,4-11
O Dio, grande nell’amore,
che nel sangue di Cristo versato sulla croce
hai stipulato con il tuo popolo l’alleanza nuova ed eterna,
fa’ che la Chiesa sia segno del tuo amore fedele,
e tutta l’umanità possa bere il vino nuovo nel tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa Is 62,1-5
Gioirà lo sposo per la sposa.
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.
Per amore di Gerusalemme
Quello del profeta per la sua città è un amore impaziente che con forza richiede la restaurazione della giustizia e della «salvezza». L’oracolo non esprime solo il desiderio di veder ricostruiti edifici e reinsediati gli abitanti ma anche il fiducioso abbandono nelle mani di Dio. La restaurazione sognata comporta una vera reviviscenza della vita cittadina, della gioia dello sposo e della sposa, dei canti e delle feste, della fecondità della terra arata, seminata, veramente »sposata». L’amore per la città è l’amore per il popolo., con la sua cultura e la sua storia. Il profeta in nome dell’amore per la sua città e il suo popolo si fa loro intercessore insegnando ai figli d’Israele a fare lo stesso per Gerusalemme.
Il profeta che sogna Gerusalemme, città dell’incontro tra amici, difesa contro i nemici, culla della cultura, non si rassegna a vederla come luogo di violenza e di solitudine, di indifferenza e crudele competitività. Perciò invita i suoi concittadini a non smettere di sperare perché dove c’è speranza per la città umana c’è anche la salvezza.
Salmo responsoriale Sal 95
Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 12,4-11
L’unico e medesimo Spirito distribuisce a ciascuno come vuole.
Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.
I carismi dello Spirito sono per il bene comune
Paolo tratta la questione del buon uso dei carismi, cioè dei doni dello Spirito, concessi alla comunità quale segno visibile della presenza del Signore nella Chiesa. La comunità di Corinto aveva una mentalità ancora molto impregnata di paganesimo, infatti sono tentati di apprezzare soprattutto i doni più spettacolari e di utilizzarli in maniera autoreferenziale, diventando motivo di rivalità. L’apostolo chiarisce che la finalità dei doni è per il bene comune e non per l’esaltazione del singolo che si sente investito di un privilegio e un’autorità sugli altri.
Paolo utilizza l’apologo classico col quale si rappresenta la società come un organismo vivente che, pur formato da molte membra costituisce un unico corpo. Il corpo umano fornisce una perfetta immagine di una diversità radicata nell’unità. Mediante il battesimo e l’eucaristia lo Spirito inserisce ogni cristiano nella Chiesa, che è il corpo di Cristo, facendo di lui un suo membro. L’appartenenza al corpo non è una condizione statica ma dinamica. Lo Spirito unisce il credente a Cristo e contestualmente ai fratelli che, come lui, sono membra di Cristo. La Chiesa è la presenza fisica di Cristo nel mondo nella misura in cui prolunga il suo ministero. In Cristo, crocifisso nella carne ma reso vivo nello Spirito, si realizza la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio. Questo ministero di comunione, mediante lo Spirito, passa al battezzato che diventa ministro della riconciliazione mettendo la propria vita a servizio dell’unità dell’umanità. I credenti, accomunati dalla stessa origine e dalla medesima vocazione, si differenziano per i doni ricevuti affinché la Chiesa risulti una sinfonia armoniosa di carismi e ministeri.
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 2,1-11
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù.
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
LECTIO
Contesto
L’episodio della festa di nozze funge da cerniera tra la testimonianza di Giovanni il Battista e quella di Gesù. Esso è anche il culmine di un processo, che dura una settimana, inaugurato col battesimo di Gesù per continuare con gli incontri, dai quali inizia a formarsi una comunità di discepoli. La scansione temporale definisce chiaramente la sequenza narrativa la settimana inizia con la testimonianza di Giovanni dinanzi alla commissione inquirente proveniente da Gerusalemme (1,19-28); prosegue il secondo giorno con la confessione di Giovanni davanti a Gesù (1, 29-34); il terzo giorno è caratterizzato dall’incontro con Gesù di Andrea e un suo compagno entrambi discepoli di Giovanni (1, 35-39) a cui si aggiunge la venuta di Simon Pietro e la sua chiamata (1, 40-42); nel giorno successivo, il quarto, si narra l’incontro con Filippo e Natanaele (1, 43-51). La vocazione di Andrea, del discepolo anonimo e di Filippo nasce da un invito diretto di Gesù, mente la chiamata di Simon Pietro e Natanaele è mediata dalla testimonianza di Andrea e Filippo che erano entrambi di Betsaida di Galilea. La coppia Andrea-Filippo ritorna nell’episodio dei pani in 6,1-13 e in quella dei Greci che vogliono vedere Gesù in 12, 20-22. A questo bisogna aggiungere che il segno di Cana di Galilea, quello dei pani e l’episodio dei Greci avvengono nel contesto della Pasqua dei Giudei. C’è un filo rosso che unisce le tre feste di Pasqua menzionate (2,13; 6,4; 12,1). L’evangelista è stato attento a collegare la settimana inaugurale della missione di Gesù, che culmina con il segno di Cana di Galilea e che è ambientata in prossimità della prima Pasqua menzionata nel racconto, all’ultima settimana di vita di Gesù, introdotta con la terza annotazione della Pasqua dei Giudei fatta dal narratore, e che si conclude con l’evento della croce. Dunque, il miracolo dell’acqua diventata vino, che inaugura la sequenza dei segni narrati nei primi 12 capitoli del Vangelo, rimanda direttamente all’immagine del Crocifisso dal cui lato, aperto dalla lancia, sgorgano sangue e acqua. Le due settimane sono anche caratterizzate dalla testimonianza di Giovanni il battista e del discepolo amato che concordano nell’indicare in Gesù «l’Agnello pasquale» (1,29.35; 19,35-37).
Testo
La pericope ha una struttura alquanto simile ai racconti di miracolo: Introduzione in cui presenta l’ambientazione dell’evento nuziale e i primi personaggi (vv. 1-2); la trama si complica con la segnalazione di un problema che innesca un dialogo tra Gesù e la madre (vv. 3-5); la soluzione è data dalla parola di Gesù e dall’azione dei servi che mettono in pratica le sue istruzioni (vv. 6-8); la reazione è affidata al maestro di tavola che certifica la bontà del vino superiore a quello precedente (vv. 9-10); la conclusione è affidata al narratore che fa rientrare in scena i personaggi, presentati all’inizio del racconto, e dei quali rivela il principio della fede in lui quale primo effetto del segno (vv. 11-12).
Il racconto inizia con un’annotazione temporale il «terzo giorno» che non significa innanzitutto tre giorni dopo. Il «giorno terzo» può significare anche il giorno finale, ovvero il culmine di un tempo che, nella fattispecie è quello della transizione dalla testimonianza di Giovanni a quella di Gesù. Nel linguaggio della tradizione evangelica l’espressione «terzo giorno» è riferito al culmine del processo pasquale che dalla passione e morte giunge alla risurrezione. Questa indicazione di tempo proietta l’episodio nell’evento della Pasqua di Gesù. L’evangelista ama contestualizzare le fasi della narrazione, ritmata dai «segni», nell’ambito delle feste liturgiche. In questo caso, si tratta di una festa di nozze. Tuttavia, non manca il riferimento al rito perché si fa riferimento alle «sei idrie di pietra che servivano per la purificazione dei giudei» (v. 6). Potrebbe esserci un nesso che lega le giare al gruppo degli invitati. Infatti, escludendo Gesù, i soggetti invitati alla festa sono la madre di Gesù e i cinque discepoli presentati precedentemente. Il dialogo con la madre non può prescindere da quello che Gesù ha avuto con i cinque discepoli. Dunque, ragionevolmente si può pensare che nella dinamica del racconto, l’identità della madre subisca un primo cambiamento affinché si collochi nella relazione tra Gesù e i discepoli. Con quali caratteristiche, lo si deduce dal resto del racconto. Sullo sfondo rimane sempre la figura degli sposi, presenti, perché sono la ragione essenziale della festa, ma anche assenti perché non menzionati. La figura dello sposo e dalla sposa, proprio perché non direttamente protagonisti della scena, diventano una cifra simbolica per comprendere il messaggio evangelico che il narratore vuole offrire. La festa di nozze richiama l’alleanza nuziale tra Dio e Israele, di cui il dono della Legge è un segno profetico, che si compie sulla croce; il nuovo Adamo dona il suo Spirito alla Donna, sicché i due diventano «una carne sola» (Gn 2,24). Questa è la «nuova alleanza» (Ger 31,31s.) che Dio non sancisce più con una legge scritta su pietra, destinata a finire, ma sui cuori. Dunque, il tema sembra essere la relazione sponsale tra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la Chiesa (la madre di Gesù e i discepoli). Essi sono i protagonisti del processo trasformativo che fa dei discepoli credenti di Gesù i testimoni credibili del Signore.
Dopo l’ambientazione viene la complicazione: la festa fallisce per la mancanza di vino. La madre di Gesù annuncia: «Non hanno vino». È un annuncio di sventura, una lamentazione, un’espressione di dolore. La festa sta per trasformarsi in un evento luttuoso. Qui abbiamo una prima trasformazione in negativo che ricorda la profezia di Am 8: «In quel giorno… io farò tramontare il sole a mezzogiorno, e in pieno giorno farò venire le tenebre sulla terra. Trasformerò le vostre feste in lutto e tutti i vostri canti in lamento… Getterò il paese nel lutto come quando muore un figlio unico, la sua fine sarà come un giorno di amarezza… Ecco, vengono i giorni, dice il Signore, l’Eterno, in cui io manderò la fame nel paese, non fame di pane o sete di acqua, ma la fame e la sete di ascoltare la parola dell’Eterno. Allora, vagando da un mare all’altro, dal settentrione al levante, correranno qua e là in cerca della parola dell’Eterno, ma non la troveranno» (Am 8,9-12). La tradizione ha letto in questa profezia l’annuncio del giorno della morte di Gesù. Il giorno di festa per i giudei diventa un giorno di lutto per i discepoli di Gesù. Il soggetto di «non hanno vino» sono gli sposi e gli invitati. Dunque, la tristezza sta per avvolgere anche Gesù e i discepoli. Il clima di tensione che si crea alla festa di nozze viene riproposto nell’ultima settimana di vita di Gesù nella quale s’intrecciano i motivi della festa di Pasqua, con i suoi riti, e i complotti che porteranno Gesù ad essere condannato e crocifisso. Il Maestro nel contesto dell’ultima cena, dopo il segno della lavanda dei piedi, istruisce i suoi discepoli a vivere quell’ora drammatica sostenuti dalla certezza che «la vostra tristezza si trasformerà in gioia» (Gv 16,20). La mancanza di vino significa mancanza del frutto della vite. Nel discorso Gesù fa ricorso alla simbologia della vite i cui tralci sono mediatori del frutto a patto che rimangano uniti alla pianta. «Senza di me non potete far frutto» (Gv 15,5), dice Gesù, che si identifica con la vite, ai discepoli che paragona ai suoi tralci. In 15,3 Gesù afferma: «voi (i discepoli) siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato». L’annuncio della sua morte ha segnato il cuore dei discepoli che sono nella tristezza, che li accompagnerà non solo negli eventi drammatici della passione ma anche in quelli della persecuzione che li attende a causa della loro scelta di essere discepoli di Gesù. Quella tristezza è necessaria per farsi purificare al fine di vivere l’unione sponsale con Gesù. L’unione nella passione è condizione per essere associati alla gioia della risurrezione. Gesù chiede ai discepoli di «rimanere in lui», come il tralcio alla vite, facendo rimanere le sue parole nel proprio cuore. La parola di Gesù è il comandamento dell’amore che egli «scrive nel cuore» (Ger 31) dei discepoli con il suo sangue. La morte in croce è un atto di amore che si fa servizio. Questo è l’insegnamento di Gesù Maestro perché la sua parola (l’evento della croce) lascia il segno nel cuore dell’uomo. Solo custodendo e attuando il comandamento dell’amore si può portare frutto e produrre il «vino migliore». La mancanza di vino è anticipazione della mancanza dello Sposo che «viene tolto e portato via», come dice la Maddalena ai discepoli dopo aver scoperto la tomba vuota (Gv 20).
Il tema del vino, dunque, richiama il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli, di cui sua madre entra a far parte. Infatti, la duplice domanda di Gesù si comprende solo nel contesto del dialogo che il Maestro ha con i discepoli nell’ultima cena. Gesù chiama sua madre «Donna». Parlando del passaggio dalla tristezza alla gioia, Gesù porta l’esempio della «donna-madre»: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,21-22). Chiamandola «Donna», Gesù la associa ai discepoli e implicitamente la indica anche come modello da accogliere e seguire. La madre partecipa al dolore della mancanza del vino, esprime, cioè il dolore col lamento funebre. «Cosa c’è tra me e te?»: il figlio si rivolge alla madre invitandola a vivere il dolore da discepola sua, partecipando all’ora della passione come una donna vive l’ora del dolore del parto, certa che la sofferenza lascerà ben presto il posto alla gioia per la nascita di un bambino. L’ora del parto è l’ora della morte che genera una vita nuova e, con essa, la gioia.
La madre di Gesù non replica a suo figlio ma si rivolge ai «diaconi» e «figli»: «Qualunque cosa egli vi dica, fatela». Sono le parole della donna-discepola che assume la funzione di madre-maestra. Sotto la croce sono presenti ancora la madre di Gesù e il discepolo amato, insieme ad altri discepoli. Lì, la madre riceve una consegna: «ecco tuo figlio». Da madre, perché discepola del Figlio, diventa maestra e modello per i discepoli figli perché si è lasciata «lavare i piedi» e ha accolto l’insegnamento di Gesù di servire nell’amore la comunità. Maria, rivolgendosi ai servi, assume la funzione del «maestro di mensa». Non impartisce ordini ma rimanda al comandamento del figlio-Signore. L’insegnamento di Maria orienta i servi all’obbedienza, intesa come interiorizzazione della sua parola e partecipazione alla sua opera. L’opera dei servi non è altro che la realizzazione della parola di Gesù, fino a diventare la ripresentazione dell’evento della croce. «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19) è l’istruzione liturgica che fa dell’eucaristia non solamente un rito ma l’evento nel quale si realizza il comando del Maestro nelle stesse modalità con le quali lui lo ha messo in pratica: «come io ho lavato i piedi a voi, così lavatevi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14).
I vv. 6-10 rientrano in quella che, con linguaggio della narratologia, si chiama «azione trasformatrice». Si tratta del punto di svolta della situazione ma anche della chiave di lettura della vicenda. L’ambiente che fa da sfondo richiama il tema della purificazione a motivo della presenza di sei idrie di pietra, il cui uso era specificatamente rituale. Gli invitati, prima di accomodarsi alla festa di nozze avevano fatto le abluzioni. Ormai la festa era già al terzo giorno e queste idrie erano lì inutilizzate. La capienza di quelle giare era tale da poter calcolare che in esse potevano essere contenute fino a circa 600 litri d’acqua. Gesù comanda di riempire le idrie completamente. I servi obbediscono senza batter ciglio. Una volta assolto al loro compito, Gesù ne affida loro un altro: «attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi, di nuovo obbediscono. I servi, dunque, obbediscono alla parola della «donna»-maestra e al «maestro». L’accento è posto sull’azione di Gesù di parlare e quella dei servi di obbedire. L’effetto di queste azioni, connesse tra di loro, porta alla trasformazione dell’acqua in vino che viene gustato dal maestro di tavola. Egli si complimenta con lo sposo che nel frattempo entra in scena. Da una parte c’è il maestro di tavola e lo sposo, dall’altra i servi, Gesù e il lettore. Il maestro di tavola era uno dei servi che aveva il compito di sovrintendere alla buona riuscita della festa. Potremmo cogliere un parallelismo tra la madre di Gesù, che denuncia la mancanza del vino, e il maestro di tavola, che invece loda la bontà del vino. Il dialogo tra Gesù e la madre trova il suo corrispettivo nel dialogo tra il maestro di tavola e lo sposo; sicché, Gesù appare come lo Sposo che ha conservato «fino a quell’ora» il vino migliore. Quella è riconosciuta come l’ora della consegna del vino migliore. L’evangelista sottolinea da una parte l’ignoranza dell’origine del vino più buono da parte del maestro di tavola, e dall’altra, la conoscenza dei servi. La conoscenza del maestro di tavola si ferma alla bontà sensoriale ma solo i servi conoscono l’origine del vino e il perché della sua bontà superiore. Questo perché non hanno solo assistito ad un miracolo fatto da Gesù, ma ne sono stati protagonisti obbedendo alla sua parola. Il fraintendimento, già presente nel dialogo tra la madre e Gesù, è riproposto nel dialogo tra il maestro di tavola e lo sposo. I servi, come i discepoli di Gesù, hanno guardato alla madre e hanno accolto il suo invito ad obbedire alla parola figlio, partecipando con la loro opera a quella del vero sposo, riconosciuto in colui che ha conservato e dona il vino migliore fino all’ora stabilita: l’ora della gloria. Il maestro di tavola è simbolo dei responsabili della comunità che, pur essendo loro stessi servi, con l’obbedienza all’unico vero maestro, sono in grado di riconoscere il vero sposo. Il fraintendimento lascia aperta una possibilità: i servi, attori e testimoni dell’evento, possono raccontare le cose come sono avvenute indirizzando il riconoscimento della gloria, non verso ignari personaggi che prendono meriti non propri, ma a colui che manifesta il volto di Dio. Dio, infatti, nessuno lo ha mai visto (conosciuto), il Figlio lo ha narrato con la sua passione, morte (cf. Gv 1,18). Il Padre, facendo passare Gesù da questo mondo a Lui, apre anche la strada all’uomo perché la dimora del cielo diventi la casa dove lo Sposo introduce la Chiesa, sua Sposa.
MEDITATIO
Servire con amore per amare con gioia
«È il Signore che sta passando proprio qui, e quando passa tutto si trasforma…». Sono le parole di un canto che ci permette di cogliere il cuore del messaggio di questa domenica. La pagina del vangelo, infatti, propone il primo dei segni attraverso il quale Gesù mostra la sua gloria e i suoi discepoli iniziano a credere. Il contesto è quello di una festa di nozze che si svolge a Cana di Galilea dove si sta celebrando la nascita di una famiglia. È presente Gesù con la madre, che rappresenta la sua famiglia di origine, e i suoi discepoli, i quali appartengono alla comunità che si sta costituendo attorno al Maestro. Gli invitati non sono solo fruitori della festa ma diventano i protagonisti. Parimenti i servi che, non sono solo funzionari, diventano ministri della Parola, mettendola in pratica, e primi testimoni della nuova alleanza. La madre di Gesù, accorgendosi della mancanza del vino, lo fa noto al figlio che replica invitandola a riflettere sul rapporto tra loro e affermando che la sua ora ancora non è giunta. Le parole di Gesù non intendono mancare di rispetto alla madre né disinteressarsi al problema, ma invitano a passare dal piano del bisogno materiale a quello della volontà di Dio. Infatti, l’oracolo del profeta Isaia, che leggiamo nella prima lettura, annuncia l’intenzione di Dio di «sposare» il suo popolo per unirsi intimamente ad esso e riscattarlo dalla condizione di abbandono e tristezza. Ciò che rende povera una relazione è l’assenza di Dio. Le feste si trasformano in lutti perché manca la gioia che solo la presenza di Dio può dare. Maria comprende il messaggio di Gesù e intuisce che la soluzione passa attraverso l’obbedienza alla parola di Dio. La madre esercita l’autorità non sul figlio ma sui servi. Essi sono chiamati ad obbedire alla parola di Gesù che a sua volta si fa servo della volontà del Padre. Con fine ironia l’evangelista Giovanni presenta Gesù come lo sposo che conserva fino a quell’ora il vino migliore. L’ora a cui si accenna è quella della croce nella quale ritorna Gesù, la madre e il discepolo. Nell’ora della croce Gesù porta a compimento la volontà di Dio e il suo amore raggiunge il colmo. Il cuore del racconto risiede nei due comandi che Gesù dà ai servi. Da una parte richiamano il gesto della lavanda dei piedi e dall’altro il comandamento dell’amore. L’amarsi reciprocamente trova la sua attuazione pratica nel lavarsi i piedi gli uni gli altri. L’amore vero è servizio! Solo questo tipo di amore fa gioire il cuore. Gesù ha dato l’esempio di come servire con amore e amare con gioia. La madre di Gesù, fattasi anche lei discepola della volontà di Dio, invita i discepoli a guardare Gesù e ad imitare il suo esempio. La parola di Gesù prima che essere un dovere da compiere è un evento da contemplare; Lui, servo del Padre e degli uomini, porta a compimento la legge di Mosè. Non c’è amore più grande di questo: dare la vita. Nel gesto di riempire le anfore di pietra fino all’orlo si rivela l’amore di Gesù per gli uomini «fino alla fine»; in quello di attingere dalle giare l’acqua diventata vino e portarne al maestro di tavola si rappresenta il dono dello Spirito Santo effuso dalla croce su tutti gli uomini simboleggiato dal sangue e acqua usciti dal costato aperto dalla lancia. Gesù nel piano di Dio è lo sposo che, amando la sua sposa, le trasforma la vita facendola passare dalla tristezza dell’abbandono alla gioia di essere amata e resa madre. La trasformazione dell’acqua in vino avviene senza clamore ma nel silenzio e nel nascondimento che sono le due caratteristiche peculiari dell’amore di Dio per gli uomini. Credere significa essere come quei servi che obbedendo alla parola di Gesù diventano ministri della gioia dei loro fratelli. I carismi che ognuno riceve in dono dall’unico Dio diventa motivo di gioia solamente se sono praticati avendo a cuore il bene comune e non per interesse personale o per ostentazione. La gioia del vangelo passa attraverso testimoni che si lasciano trasformare dalla Parola affinché l’amore di Dio assuma la forma visibile di una vita donata con gioia.
ORATIO
Signore Gesù, ospite discreto delle nostre case
in cui viene a mancare il vino della gioia,
trasforma la nostra condizione
di uomini schiavi del formalismo,
vittime dell’indifferenza e della solitudine,
dipendenti dalla cultura del consumo e dello scarto,
ricercatori erranti di nuove emozioni.
Rendici commensali festosi del banchetto eucaristico,
fratelli attenti ai bisogni degli altri,
servi fedeli e obbedienti alla tua parola.
Tu, che ci hai amati fino alla fine
e sei il modello dello sposo che ama la sua sposa
perché sia sempre più bella,
insegnaci a servire con amore
e ad amare con gioia usando i carismi che Dio dona
affinché la Chiesa, madre e sorella,
possa far gustare a tutti la dolcezza della tua Sapienza.
Riempi i nostri cuori, duri come la pietra,
del tuo Spirito d’amore
che dà gusto di fraternità
ai riti quotidiani della famiglia
e accompagna i passi degli sposi nascenti
perché, imparando da Te ad amarsi reciprocamente,
possano essere testimoni credibili di speranza
e ministri generosi di carità. Amen.
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