XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina
Dt 6,2-6 Sal 17 Eb 7,23-28
O Padre, tu sei l’unico Signore
e non c’è altro dio all’infuori di te:
donaci la grazia dell’ascolto,
perché i cuori, i sensi e le menti
si aprano al comandamento dell’amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del Deuteronòmio Dt 6,2-6
Ascolta, Israele: ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore.
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.
Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Il precetto dell’amore
Il Dio d’Israele è il Dio dell’amore. Egli è Amante che chiede di essere amato. L’amore è la vita che, ricevuta, diviene generatrice di altra vita. L’amore cresce se si diffonde nella condivisione e la vita sovrabbonda se donata con gioia. Dio ama con tutto sé stesso e indica all’uomo nell’amore totale e oblativo la via che porta alla vita. Dio vive per amare e indica all’uomo che non c’è altro modo di vivere che amando. I comandamenti ricordano all’uomo che è fatto per vivere amando. I comandamenti nascono dal cuore di Dio che ama le sue creature e desiderano che vivano senza più morire, senza più peccare. Ascoltare la Parola vuol dire meditarla, custodirla nel cuore, renderla roccia sulla quale fondare la propria vita con le sue scelte. La Parola educa i sensi, la volontà e la libertà e li orienta verso Dio per fare della propria vita un dono di amore a Lui. Mettere in pratica la Parola diventa il sacrificio spirituale perfetto, santo e gradito a Dio perché così non si compie semplicemente una prestazione, ma si offre il servizio dell’amore, il quale è la preghiera che Dio accoglie e trasforma in benedizione.
Salmo responsoriale Sal 17
Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.
Dalla lettera agli Ebrei Eb 7,23-28
Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta.
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Il sacrificio spirituale
Dio Padre ha costituito suo Figlio Gesù sommo sacerdote e, con la sua morte e risurrezione ha reso il suo ministero eterno. Egli, infatti, offrendo sé stesso in sacrificio sulla croce lo ha fatto una volta per tutte. Perciò Gesù Cristo intercede sempre a nostro favore. In questo consiste la nuova ed eterna alleanza inaugurata dalla Pasqua di Gesù e della quale egli è l’unico garante. Quale nuovo ed eterno sommo sacerdote, Gesù diventa per tutti intercessore ma anche modello del proprio sacerdozio. Chiunque, senza distinzione di razza o religione, è destinatario e beneficiario del sacerdozio di Cristo e, come tale, da Lui è reso capace di esercitarlo. La novità consiste nell’oggetto dell’offerta: non si offrono più sacrifici animali, ma, ad immagine di Gesù Cristo, si raggiunge la pienezza del sacerdozio offrendo sé stessi. I sacerdoti dell’antica alleanza erano mediatori di offerte materiali che non avevano la forza di santificare l’uomo. Il nuovo ed eterno sommo sacerdote, Gesù Cristo, intercede per noi perché ci associa all’unica offerta che salva veramente, il dono del suo corpo. Egli lo ha offerto una volta per tutte al Padre ed eternamente lo offre anche a noi affinché possiamo unirci al suo sacerdozio e renderlo perfetto offrendo noi stessi come sacrifici santo e gradito a Dio. C’è una precisazione da fare: Gesù, offrendo sé stesso, afferma che non ci deve essere separazione tra culto e vita, amore a Dio e al prossimo. Celebrando l’eucaristia noi gustiamo e sperimentiamo la pienezza dell’amore di Dio per noi. Al contempo, da Lui siamo educati a puntare alla perfezione, alla forma più alta dell’amore al prossimo, donando all’altro, non solamente cose – seppur necessarie – ma noi stessi. Da qui si comprende il comando del Signore: «date loro voi stessi da mangiare» (Mc 6,37).
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 12,28-34
Amerai il Signore tuo Dio. Amerai il prossimo tuo.
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
LECTIO
Contesto
I primi dieci capitoli del Vangelo di Marco coprono un arco temporale di circa due anni nei quali si sviluppa la narrazione della missione di Gesù, mentre gli ultimi sei narrano l’ultima settimana della sua vita. Il rallentamento del ritmo narrativo è indicativo del fatto che il lettore deve porre ancora maggiore attenzione al racconto che culmina con la morte di Gesù. I capitoli 11-13 formano un’unità narrativa che si sviluppa sullo sfondo del tempio di Gerusalemme il cui destino finale è chiave di lettura della vicenda del Maestro. La struttura la si può riconoscere a partire da alcuni elementi ricorrenti. Schematicamente possiamo dire che l’unità è data divisa in tre parti, tante quante le tre visite al tempio. Nella prima visita Gesù si limita ad uno sguardo generale (11,1-11), nella seconda compie dei gesti accompagnati da parole che ne rivelano il senso profetico (11, 12-25), nella terza ingaggia una disputa con le autorità religiose riguardo a tre temi che sono oggetto di controversia. Tre giorni di azioni simboliche terminano con un sovraccarico di controversie tra Gesù e il giudaismo gerosolimitano (11, 26-12,34) che culminano con un insegnamento rivolto ai discepoli nel tempio (12, 35-37.41-44) e quello profetico apocalittico sulla fine di Gerusalemme e del mondo che invece è fatto sul monte degli Ulivi (13, 1-37).
La pericope liturgica s’inserisce nell’ultimo dei tre giorni consecutivi nei quali Gesù visita il tempio. Il Maestro si confronta con tutte le espressioni delle autorità religiose. Queste lo affrontano prima insieme (11,27-12,12) e poi in modo separato inviando dei rappresentanti. Essi cercano di mettere alla prova l’autorità di Gesù per tre volte (12, 13-17.18-27.28-34). Gesù è preso di mira dalle tre varianti delle autorità: dai farisei ed erodiani circa la liceità del tributo a Cesare (vv.13-17), dai sadducei riguardo alla questione della risurrezione (vv.18-27) e infine dallo scriba che lo interroga a proposito della Legge e del suo comandamento più grande.
Testo
La pericope liturgica è introdotta e conclusa dal narratore che dapprima fa entrare in scena uno degli scribi (v.28), presente alla disputa con i Sadducei sul tema della risurrezione dei morti, e alla fine annota che nessuno osava interrogarlo (v.34b). Al centro vi è il dialogo tra lo scriba e il Maestro. L’evangelista specifica che lo scriba ha apprezzato la risposta data da Gesù alla provocazione dei Sadducei; infatti, la replica del Maestro stigmatizza la loro ignoranza «delle Scritture e della potenza di Dio» (v.24) che invece sono i fondamenti della fede nella risurrezione dai morti. Mosè è testimone del Signore Dio che si è presentato come «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe», dunque un Dio personale non paragonabile agli dei morti. Tra le righe Gesù denuncia il peccato d’idolatria di cui si macchiano proprio i sacerdoti del tempio, secondo l’invettiva di molti profeti. La classe aristocratica dei sacerdoti apparteneva alla setta dei sadducei. Gli scribi, invece, appartenevano a quella dei farisei, alcuni dei quali si erano già opposti a Gesù, soprattutto all’indomani del gesto provocatorio nel tempio. Le Scritture non sono “lettera morta” come lo sono il legislatore e i patriarchi; essi, benché morti sono vivi in Dio che è appunto il Dio dei vivi e non dei morti. Dunque, la conoscenza delle Scritture, suscita l’interesse dello scriba che si avvicina a Gesù per interrogarlo. Lo scriba era in Israele una sorta di laureato che aveva frequentato una scuola superiore, che aveva approfondito gli studi biblici, ma che poteva espletare anche le funzioni di segretario, di funzionario, di amministratore. Si potevano fregiare anche del titolo di rabbì, in ebraico e aramaico «mio maestro», donde il termine «rabbino». A differenza di Matteo e Luca che parlano di un «dottore della Legge» (Mt 22,35; Lc 10,25), Marco usa il termine «scriba» (in greco grammateus) per sottolineare il legame con la Scrittura che è Parola di Dio prima che essere parole di uomini. La caratterizzazione che il secondo evangelista fa di questo scriba stupisce perché, contrariamente al gruppo dei suoi pari, ha nei confronti di Gesù un atteggiamento di apertura e di dialogo. Si nota che la tensione attivata dall’azione simbolica di Gesù nel tempio va gradualmente attenuandosi fino a esaurirsi nel silenzio. Infatti, si passa dai tre gruppi iniziali (i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani), a due gruppi (i farisei e gli erodiani), a un solo gruppo (i sadducei) fino a giungere ad un individuo, anche se è rappresentate di una categoria che si è dimostrata, sin dall’inizio, ostile a Gesù e ai suoi discepoli. Anche il Maestro usa nei loro confronti parole molto dure (cf. 12, 35.38-40). In questo caso, però, l’approccio dello scriba è molto diverso da quello dei suoi colleghi, così come lo è anche la reazione del Maestro.
La domanda dello scriba, che ha già conosciuto il grado di conoscenza che Gesù ha delle Scritture, mira a saggiare la profondità della sapienza del Maestro. Con l’umiltà del discepolo, lo scriba domanda a Gesù quale sia in assoluto il primo comandamento. L’espressione usata rivela che l’esperto delle Scritture non intende stabilire una gerarchia tra i comandamenti ma cerca il cuore della volontà di Dio, l’essenza della Legge. La tradizione rabbinica riferisce l’episodio dell’uomo pagano che chiede al rabbi Hillel di insegnargli l’intera Torah nel tempo consentito stando in piedi su un solo piede. Hillel risponde: «Quello che odi per te stesso, non farlo al tuo prossimo. Questa è l’intera Legge. Il resto è puro commento» (Talmun Babilonese). La risposta di Gesù è una «collana» di citazioni che unisce Dt 6,4-5 e Lv 19,18 evidenziando che il cuore della Legge è l’ascolto della parola di Dio attraverso cui Dio mostra il suo amore unico e fedele all’uomo. Gesù risponde innanzitutto richiamando le parole della preghiera dello Shemà («Ascolta»). È un esempio di come la lex credendi (la verità di fede) diventa lex orandi (preghiera liturgica). La Mishna afferma che lo Shemà, insieme al decalogo, era recitato quotidianamente al tempio, che era l’unico luogo deputato soprattutto alla pratica cultuale degli olocausti e dei sacrifici. La centralizzazione del culto a Gerusalemme nasce come risposta alla deriva idolatrica della monarchia d’Israele. Quando il regno davidico si divide in due, ciascuno dei re pretende di avere il monopolio sul culto sostituendosi all’unico Dio. Lo scriba, dopo il fallimentare approccio a Gesù su tematiche che sono secondarie, cerca di riportare il confronto sul terreno della Parola di Dio perché egli stesso riconosce che la prassi si poggia sulla relazione di ascolto della Parola. Essa ricorda che Dio si è manifestato nella storia come l’unico e vero Dio la cui caratteristica è l’amore, non teorizzato ma praticato concretamente mediante l’opera della creazione e della liberazione o ri-creazione. A differenza degli dei che hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno bocca e non parlano, hanno narici e non odorano, hanno piedi e non camminano, hanno mani e non palpano, il Signore Dio ascolta il grido del povero, vede la sua miseria, si fa prossimo, tocca ed entra in contatto. Tutto questo è raccontato di Gesù nei confronti dei malati e degli indemoniati. L’amore è esperienza di una parola ascoltata e pronunciata, di contatto visivo e di prossimità. Dio si è rivelato nella storia concreta degli uomini e Gesù ha manifestato la sua identità puntando tutto sulle relazioni personali generatrici di comunità aperte e accoglienti. La relazione non prescinde mai dal corpo del quale spesso si sottolinea la precarietà. Ascoltare significa accogliere l’amore di Dio comunicato attraverso parole e gesti che insieme rendono la Sua volontà un evento di grazia. L’obbedienza alla Parola di Dio comporta l’accoglienza nel proprio corpo perché, sanato da essa, diventi a sua volta luogo nel quale viene annunciata. L’unicità di Dio non porta all’isolamento ma all’unità con la sua creatura e all’armonia tra i membri della comunità, che vivono come un corpo solo. Amare, allora, significa fare unità, aderire all’altro per formare un cuor solo e un’anima sola. L’unità è l’effetto dell’amore praticato attraverso il dono di tutto sé stesso all’altro. Dio, pronunciando il suo nome a Mosè, si è presentato come colui che si fa presente, ovvero che si fa dono per l’altro. La relazione con Dio è la condizione di base per l’amore al prossimo, e al contempo, l’amore al prossimo è l’annuncio, la ripresentazione e l’amplificazione dell’amore di Dio che si fa storia. L’amore di Dio chiede di essere incarnato perché sia corrisposto a Lui un amore fatto carne. L’amore non è solo un sentimento o una speranza ma è stile di vita che determina l’identità personale del credente. L’amore a Dio è la pratica dell’amore al prossimo, prima di quella cultuale.
Lo scriba nella sua replica non ripete semplicemente le parole di Gesù che cita la Torà ma le conferma facendo un’operazione propria dei rabbini che connettevano la Legge ai profeti. Diffuse sono le critiche dei profeti che denunciano lo scollamento tra fede e vita, contraddizione tra culto e ingiustizia sociale. Lo scriba nelle parole di Gesù non vede semplicemente la conferma dei suoi pensieri, ma riconosce nel suo insegnamento la verità della Parola. Dall’altra parte anche Gesù vede nello scriba un sapiente onesto intellettualmente. L’intelligenza della fede gioca un ruolo importante nella dinamica del confronto dei due perché porta a nutrire una stima reciproca. Tuttavia, il lettore non deve mettere sullo stesso piano Gesù e lo scriba perché le parole di Gesù manifestano la sua sapienza che non si esaurisce nella conoscenza delle Scritture ma è originata dalla relazione filiale con il Padre e fraterna con gli altri uomini. In Gesù obbedienza di fede e misericordia per i poveri vanno di pari passo. In tal modo, il Regno di Dio è quella comunità che, in ascolto della Parola, l’accoglie e da essa si lascia trasformare per essere sempre più aperta e inclusiva. Lo scriba ha il compito di trasmettere per iscritto l’unica ed eterna parola di Dio; non lo fa solo riproducendo la lettera della Legge, per custodirne la memoria, ma usa l’alfabeto delle relazioni per annunciare la Parola con la propria carne e testimoniarne l’efficacia salvifica nel proprio corpo.
Il dialogo tra Gesù e lo scriba prepara il terreno per il passaggio dalla pratica cultuale, incentrata sul tempio, all’esercizio del sacerdozio attraverso la prassi della misericordia verso i poveri con cui si fa del proprio corpo un dono, che è l’unico sacrificio santo e gradito a Dio.
MEDITATIO
Amare come Dio comanda
Dalla domanda di uno scriba, che per mestiere doveva conoscere bene tutta la legge, Gesù fa emergere un altro interrogativo. Se il sapiente chiede quale sia il primo tra i seicentotredici precetti, da cui far dipendere tutti gli altri, Gesù, citando la preghiera dello «Shemà Israel», indica nella fede la sorgente della vita. La fede non si riduce a formule da pronunciare o a gesti rituali da compiere ma consiste nella relazione personale con Dio, il quale parla all’uomo nella storia rivelandosi come il solo Signore e l’unico suo Salvatore. Il cuore della fede è l’annuncio che Dio fa all’uomo di amarlo di un amore unico ed eterno. Il giuramento di Dio si è realizzato e il suo patto di alleanza è stato definitivamente siglato con il sacrificio di Gesù sulla croce, dove ha offerto sé stesso. Egli, infatti, è «il Sommo Sacerdote» che può salvare perfettamente. Il suo sacerdozio non tramonta perché Gesù Cristo è sempre vivo e intercede per noi. Grazie a Gesù Dio ascolta sempre il grido della nostra preghiera e ricorda il giuramento d’amore a cui non viene mai meno. Per questo l’amore di Dio è eterno, saldo e sicuro come la roccia. Il sacrificio di Cristo sulla croce non solo proclama la fedeltà di Dio ma mette in pratica il comandamento dell’amore a cui Lui per primo obbedisce. Egli, infatti, ama noi con tutto sé stesso e come sé stesso. Il medesimo legame di amore, lo Spirito Santo, che unisce il Padre al Figlio, viene condiviso con l’uomo. L’offerta del proprio corpo sulla croce è il più grande insegnamento di vita perché da Lui, l’unico Maestro, impariamo l’arte dell’amore il cui primo passo è l’ascolto. Il primo comandamento è appunto ascoltare. Il che significa mettersi alla presenza dell’A/altro e accoglierlo, entrare in comunione con lui e lasciarsi trasformare da quella relazione fino ad essere non solo l’uno con l’altro ma l’uno per l’altro e, in definitiva, l’uno nell’altro. Il primato non è dato alla parola e all’azione, ma all’ascolto. Esso determina l’amorevolezza delle parole e dei gesti che ci rendono amabili agli occhi degli uomini e, soprattutto, testimoniano l’amore di Dio. Senza l’ascolto di Dio non siamo credibili perché sotto l’apparente fedeltà coltiviamo gli idoli interiori e nascosti nel cuore fino al punto di idolatrare il nostro io. Il vero pericolo è quello di dirci credenti ma di coltivare il culto della nostra personalità sostituendoci a Dio e accreditandoci agli occhi degli altri come maestri di verità e salvatori del mondo. Quanto meno spazio diamo all’ascolto dello Spirito, tanto più diamo corda al nostro orgoglio.
L’ascolto ci educa a riconoscere che niente inizia da noi e tutto ha origine in Dio perché tutto è grazia, ogni cosa è un dono. Come l’amore di Dio è risposta all’ascolto del bisogno dell’uomo così l’amore dell’uomo è risposta all’appello di Dio che ci parla nella sua Parola e ancora di più attraverso i poveri. L’ascolto della Parola di Dio ci aiuta a ricordare che siamo sempre amati da Lui e che solo alla scuola del Vangelo possiamo imparare ad amare il prossimo. Infatti, mediante l’ascolto della Parola di Dio Egli ci istruisce, ci educa e ci trasforma perché diventiamo capaci di amare seguendo i consigli dello Spirito. Ascoltandolo, nutrendoci del pane della sua Parola, entrando in comunione con Dio, riceviamo da Lui il dono della Carità che alimenta la fede e la speranza. Amando, come Dio comanda, celebriamo l’eucaristia con la vita annunciando la morte di Cristo per i nostri peccati e proclamando la sua risurrezione per la nostra salvezza. La Carità, di cui devono essere impregnati la preghiera e i gesti di servizio al prossimo, fa sì che il profumo della Parola di Dio sia avvertito da tutti coloro con i quali entriamo in contatto e così, attratti dal vero amore, tutti insieme possiamo essere una comunità unanime nella lode e concorde nella fraternità.
ORATIO
Signore Gesù,
Parola di Dio generata dal cuore del Padre
che ascolta la preghiera dei suoi figli,
sulla croce firmi con il tuo sangue l’alleanza di amore
che nessun peccato potrà mai cancellare.
Ti sei sacrificato per noi
offrendo tutta la tua vita al Padre;
così indichi a tutti
l’unica vera forma di amore
che genera vita.
Solo Tu sei amore affidabile
perché hai spalancato
definitivamente il cuore di Dio
nel quale ogni uomo può trovare rifugio e salvezza.
Hai dimostrato che il tuo amore è unico,
perché solo Dio può salvare e dare la vita,
ma non è solo.
Mi chiami ad amare
con Te, come Te e in Te.
Donami la grazia di ascoltarti perché,
rispondendo al tuo invito,
con Te impari ad ascoltare la Parola di Dio;
concedimi la grazia di imitarti
perché possa servire il prossimo come Te;
effondi la grazia di amarti
con tutto il cuore, l’anima e la forza
affinché, unita alla tua,
la mia vita sia preghiera
che sale a Dio come incenso
e sia come balsamo di consolazione
versato sulle ferite
dei miei fratelli e sorelle più poveri. Amen.
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