XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina
Is 53,10-11 Sal 32 Eb 4,14-16
O Dio della pace e del perdono,
che hai inviato il tuo Figlio nel mondo
per dare la sua vita in riscatto per tutti,
concedi alla tua Chiesa di servire l’umanità intera
a immagine di Cristo, servo e Signore.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa Is 53,10-11
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza.
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
La vera bellezza dell’amore di Dio
La pericope liturgica è la conclusione del quarto canto del Servo di Dio sofferente. Il poema è unico nel suo genere, perché sembra essere una creazione letteraria nuova, diversa dai modelli orali comuni, sia nella forma e sia nel contenuto. Inquadrato all’interno di due pronunciamenti o oracoli divini in Is 52,13-15 e Is 53,11b-12, il corpo del racconto (Is 53,1-11ab) si presenta abbastanza omogeneo, con la presenza di un soggetto anonimo, ossia un noi o voce corale, ben distinto dai re e dai popoli pagani di Is 52,15, che racconta la storia del Servo, sottolineando l’iniziale ostilità e incomprensione nei suoi confronti, divenuta in seguito paradossale solidarietà. Il suo racconto si apre con una duplice domanda retorica, espressa in Is 53,1. Segue nei vv. 2-3 l’esposizione della condizione di grande disagio e disprezzo del Servo, cresciuto in una situazione di estrema aridità e in seguito disprezzato e reietto, senza possibilità di alcuna stima. Is 53,4, introdotto dalla particella ’akên (eppure), dà l’avvio al rovesciamento della situazione, con la chiara contrapposizione letteraria Lui-Noi: a noi sembrava…ma Lui si è addossato i nostri dolori; è stato trafitto per i nostri delitti; il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Con Is 53,8b si potrebbe supporre l’intervento di un terzo protagonista, forse il profeta stesso, che si caratterizza a questo punto come ulteriore voce all’interno del gruppo (Is 53,8c-11b), che attesta l’ingiusta umiliazione, sofferenza e morte del Servo fino alla sepoltura. Finalmente, in Is 53,11b-12 l’intervento di Dio conferma l’esaltazione del Servo e chiude il poema.
L’introduzione solenne ed elevata in Is 52,13 (hinnēh = guardate) rimanda all’oracolo di Is 42,1, dove il Servo è introdotto con la missione di portare la giustizia (diritto = mišpaṭ) alle nazioni. Qui l’attenzione è posta sul successo e sulla glorificazione del Servo (cfr. Is 49,3), descritti con quattro verbi al futuro, in una successiva progressione (avrà successo/diventerà luce; sarà onorato; sarà esaltato; sarà molto innalzato), tra cui spicca il primo dei quattro (yaśkîl = illuminerà), inserito tra hinnēh e ‘avdî, evidenziando forse una particolare funzione del Servo, espressa già all’inizio del poema, che è quella di svelare il senso di ciò che viene raccontato. Egli è la causa vera della conversione in primo luogo del noi, e quindi in seguito dei popoli e dei re. Tale cambiamento consiste esattamente in una svolta di lettura e di comprensione dell’evento, che ha visto vittima sofferente il Servo del Signore, finché questi non diventerà luce e rivelazione (cfr. Is 49,6). Segue, subito dopo, l’annuncio paradossale del grande dolore e sofferenza, in cui il Servo sprofonderà (v. 14), e nello stesso tempo del grande stupore e meraviglia da parte di popoli e re per la sua esaltazione (v. 15). In Is 53,1 entra in scena un altro soggetto, forse un resto di Israele, che fa una confessione raccontando la storia del Servo. La metafora del vedere sembra essere la chiave di lettura del poema, il quale racconta come la visione errata iniziale del noi si sia poi trasformata in visione retta e comprensione autentica grazie all’intervento del Servo. I salvati raccontando l’umiliazione e l’esaltazione del Servo del Signore, riconoscono che è a motivo della loro colpa che la sofferenza e il dolore si sono abbattuti sul Servo.
Il poema di Is 52,13-53,12 è un invito ad una retta visione e comprensione di una vicenda paradossale, che ha visto come protagonista il Servo per eccellenza del Signore. Il punto di partenza è stata una scorretta interpretazione e comprensione della suddetta vicenda: gli occhi di chi racconta erano incapaci di riconoscere ciò che poi sarebbe stato rivelato. La domanda retorica di Is 53,1, che apre il racconto del noi insiste proprio sul paradosso di tale rivelazione e illuminazione. Agli occhi del noi il Servo appariva senza aspetto né bellezza; la sua apparenza era indesiderata (Is 53,2). E anche le moltitudini faranno un’analoga esperienza di rivelazione e di comprensione, perché vedranno l’inverosimile e comprenderanno l’inaudito (Is 52,15), dal momento che in precedenza si erano meravigliate e stupite per l’apparenza disumana del Servo (Is 52,14). Il passaggio alla retta visione e comprensione dell’evento sembra costituire il cuore del poema: esso è affermato dal noi narrante e testimoniante (Is 53,4-7) e confermato dalla voce del profeta, che è parte integrante del gruppo confessante (Is 53,8-11a). La voce di Dio incornicia il racconto centrale, introducendolo all’inizio e confermandolo alla fine.
Salmo responsoriale Sal 32
Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.
Dalla lettera agli Ebrei Eb 4,14-16
Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia.
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Figliolanza e fraternità, obbedienza e solidarità
L’autore della Lettera agli Ebrei riconosce che la messianicità di Gesù consiste nel suo sacerdozio del quale sottolinea prima la solidarietà con gli uomini e poi l’obbedienza a Dio. La solidarietà e l’obbedienza sono le due facce dell’unico sacerdozio di Cristo. Viene instaurato un parallelismo tra il sommo sacerdozio ebraico e il pontificato di Gesù. Il Sommo Sacerdote ebraico aveva fondamentalmente la funzione di intercedere per i peccatori presso Dio al fine di ottenere il perdono dei peccati. Questo avveniva mediante dei sacrifici che il sommo sacerdote offriva per i peccati suoi e di tutto il popolo. La solidarietà del Sommo Sacerdote era basata sul fatto che era uomo e, dunque, peccatore. Il perdono lo chiedeva per sé e per i suoi fratelli. Anche Gesù è nostro fratello perché partecipa della debolezza umana e soprattutto della sofferenza subita ingiustamente.
Nessuno può auto proclamarsi sacerdote, ma questo ministero si esercita in virtù della chiamata di Dio, come era stato stabilito sin da Aronne. L’autorità del Sommo Sacerdote non lo colloca al di sopra degli altri ma a loro servizio. Il sacerdozio, quale servizio agli altri, è esercizio di fraternità. Come non ci si può autoproclamare Sommo Sacerdote, così non si scelgono i fratelli ma si accolgono come un dono da custodire nella stessa maniera con la quale si riceve l’autorità e la si esercita. Ogni autorità, che sia regale o sacerdotale, viene da Dio perché essa sia esercitata a vantaggio di tutti i fratelli. Gesù riceve la pienezza dell’autorità perché nella Pasqua di morte e di risurrezione ottiene la corona regale della vittoria sul peccato e sulla morte e l’investitura sacerdotale. Sulla croce Gesù non offre sacrifici ma sé stesso con preghiere e suppliche, tra grida e lacrime. Il Cristo non ha scelto di soffrire ma ha celebrato il suo sacrifico unendosi totalmente agli uomini peccatori e caricandosi anche del dolore innocente. Dall’altra parte per la sua piena obbedienza a Dio è stato risuscitato portando la liberazione a tutti gli uomini dal peccato e dalla morte.
La vicenda pasquale di Gesù, letta nell’ottica della fede, ci aiuta a comprendere che per essa possiamo crescere nella duplice direzione della maturità umana: essere figlio e fratello. L’ obbedienza a Dio, ovvero l’adesione alla Sua volontà, fatta con libertà e fiducia, s’intreccia con la solidarietà fraterna che può giungere a subire il martirio da innocente. Chi si affida a Dio usa gli strumenti della mitezza per lottare contro il male, il primo dei quali è la preghiera. Essa non è una formula magica segreta elaborata per perseguire fini personali. Si tratta invece del mondo con cui vivere l’intimità filiale col Padre e quella fraterna nei gesti di una solidarietà e compassione.
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 10,35-45
Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti.
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
LECTIO
Il contesto
La pericope liturgica è preceduta dai vv.32-34 nei quali è riportato il terzo annuncio della passione, che funge da contesto immediato. Dopo la sosta dovuta all’incontro con l’uomo ricco e il doppio dialogo con i discepoli (vv.17-22.23-27), riprende la salita di Gesù e dei discepoli verso Gerusalemme. Alla rinuncia del ricco al discepolato del Maestro segue il suo commento, circa la difficoltà per un ricco di entrare nel regno di Dio e l’impossibilità a salvarsi solo con le proprie opere. Le parole di Gesù gettano nello scompiglio i suoi seguaci e suscita la reazione di Pietro che rivendica la scelta di aver lasciato ogni cosa per diventare suo discepolo. La povertà non è una condizione sociale da subire ma una scelta di vita da fare. La promessa del centuplo quaggiù e della vita eterna nel futuro è accompagnata dall’annuncio della sofferenza dovute alle persecuzioni. Esse non risparmieranno i discepoli che devono metterle in conto, se liberamente vogliono seguire il Maestro e imitarlo. Subito dopo Gesù aggiunge una massima: Tutti coloro che sono primi saranno ultimi e gli ultimi primi (Mc 10,31). La scelta fatta da Pietro e dai suoi compagni di lasciare tutto e seguire Gesù deve essere sempre confermata ma, prima ancora, purificata. Di questo s’incarica l’esperienza della prova. La segreta intenzione di raggiungere i primi posti nella scala sociale conduce inesorabilmente verso l’amara sorpresa di essere ultimi nel Regno di Dio. Qualcuno tra i discepoli può pensare di essere tra i primi a meritare la promessa di Gesù che, però, è letta secondo una logica prettamente mondana. Chi invece sceglie lo stile del servizio, che lo porta a essere ultimo per essere al passo di chi è rimasto indietro, come fa un buon pastore con le pecore in difficoltà, allora egli è primo agli occhi di Dio e diventa il capofila del nuovo popolo dei salvati. Quello che Gesù insegna ai suoi discepoli lo vive in prima persona. Non è una parola teorica ma piena di significato ed efficace perché nasce dal processo interiore del discernimento per comprendere e attuare la volontà di Dio.
Perciò, Gesù coniuga in sè il ministero del sapiente maestro e dell’umile pastore che precede il suo gregge per tracciare e indicare la via giusta. La questione della legge o halakà (cammino) richiamato nel dialogo con i farisei e l’uomo ricco, fa da sfondo al racconto perché la strada che Gesù percorre con i suoi è metafora di quella “nuova halakà” che egli incarna e che vuole insegnare ai suoi discepoli: si tratta della legge dell’amore, ovvero del dono di sé. Marco, per la prima volta esplicita la meta del viaggio: Gerusalemme. Le due menzioni precedenti la descrivono come la città santa dalla quale provengono coloro che vanno da Giovanni Battista per farsi battezzare (1,5) e i farisei con gli scribi che svolgono una visita ispettiva nei confronti di Gesù (3,22). Salendo a Gerusalemme Gesù intende andare incontro a coloro che desiderano la salvezza e che non trovano nella città santa la risposta che soddisfi il desiderio di santità. Quel luogo santo, un tempo custode della legge, a causa delle sue autorità ha perso credibilità e necessita di essere cambiata affinché da quella santa montagna scenda la vera legge che rende fratelli tutti i popoli. La salita non ha solo un significato fisico ma assume un valore simbolico. Gesù appare sempre più solo perché la salita avviene in un clima generale di sbigottimento e paura. La determinazione di Gesù suscita stupore, che è la reazione di chi non riesce bene a comprendere le sue scelte, e paura in quelli che si sono determinati a seguirlo, nonostante tutto, ma che avvertono sempre di più che il loro rapporto con lui non è paragonabile a quello che lega un maestro ai suoi discepoli. C’è un di più misterioso che incute timore e che essi non hanno voglia di approfondire. La logica che muove i passi di Gesù verso Gerusalemme appare sempre più distante da quella che ispira le scelte dei discepoli, che pure seguono il Maestro. In disparte Gesù rivela ai Dodici l’epilogo del viaggio. In poche immagini è riassunta la passione e la morte del Figlio dell’uomo. Tuttavia né le mani degli uomini, né la stretta della morte, possono imprigionare Gesù, che risorgerà dopo tre giorni. I sei verbi scandiscono la trama del racconto della passione che è il cuore e l’origine del Vangelo.
Il testo
Il racconto evangelico connette gli annunci della pasqua alla reazione degli apostoli che, pur essendo i testimoni degli eventi più intimi e riservati della missione di Gesù, con i loro ragionamenti rivelano l’inconsistenza e l’immaturità della loro fede (cf. Mc 8,32-33; 9,33-34). La pericope liturgica è divisa in due scene: nella prima, due degli apostoli dialogano con Gesù (vv. 35-40), nella seconda il Maestro offre ai Dodici un insegnamento (vv.41-45). L’evangelista presenta i fratelli Giacomo e Giovanni aggiungendo il patronimico a voler ricordare il loro elevato status sociale, dato che appartenevano ad una famiglia la quale aveva a disposizione dei dipendenti (cf. Mc 1,20). Essi, insieme con Pietro, erano stati ammessi ad assistere alla risurrezione della figlia di Jairo (5,37) e alla trasfigurazione (9,2). Dunque, proprio i due apostoli, testimoni privilegiati della manifestazione gloriosa di Gesù, si accostano a lui per comunicargli la loro volontà. Piuttosto che cercare di cogliere il senso più profondo del progetto di Dio su Gesù, o quello che il Maestro si aspetta dai suoi discepoli, essi si fanno avanti per imporre la loro volontà. La replica di Gesù non è priva di una certa ironia e dimostra di sapere che la richiesta è finalizzata ad ottenere qualcosa da lui. La stessa domanda ritornerà più avanti rivolta al cieco Bartimeo (10,51) ma con un significato ben diverso. I due fratelli si raccomandano chiedendo per loro un favore: che, quando essa sarà pienamente compiuta, essi possano partecipare alla sua gloria ricoprendo i due primi posti. È evidente che la loro speranza è squisitamente umana; essi associano la gloria alla regalità la cui corona avrebbe ottenuto a Gerusalemme. Il verbo sedere allude al trono dal quale Gesù avrebbe esercitato la sua autorità, come tutti i potenti della terra. Giacomo e Giovanni si propongono come i più stretti collaboratori e consiglieri del (futuro) re. La proposta dei figli di Zebedeo nasce anche come risposta a quella che hanno inteso essere una «chiamata nella chiamata». Infatti, hanno interpretato la “selezione” di Gesù, fatta in alcuni momenti, come una forma di predilezione e di designazione, insieme a Pietro, davanti agli altri apostoli. Giacomo e Giovanni vogliono essere associati strettamente all’autorità e alle funzioni del Maestro nel momento in cui egli avrebbe raggiunto l’apice della gloria instaurando il suo regno. È alquanto paradossale che i due apostoli avanzino questa richiesta perché la pretesa, che smaschera la loro ambizione, stride con il contenuto della rivelazione del Maestro con la quale per la terza volta anticipa loro gli eventi pasquali. In essi troverà compimento la volontà del Padre che affida al Figlio il «potere» e l’«autorità» del Messia.
Gesù non respinge la richiesta ma intende correggerla e orientarla nello stesso verso della volontà di Dio della quale egli ha scelto di mettersi a servizio, non senza aver prima dichiarato l’insipienza dei suoi interlocutori e della loro petizione. Essi chiedono qualcosa che risulta essere la diretta conseguenza di un modo di pensare tipicamente mondano. Invece, il discorso di Gesù si pone su un piano superiore che è la volontà divina alla luce della quale legge la sua vocazione e il suo destino. Il progetto che motiva la scelta di Gesù di andare a Gerusalemme si riassume in due immagini: il calice da bere e il battesimo da ricevere. Il calice richiama l’idea della convivialità e al tempo stesso della sofferenza (cf. il calice dell’ira che Israele deve bere fino alla feccia a causa del suo peccato); mentre il battesimo, inteso come immersione nell’acqua, da una parte allude al gesto penitenziale del Battista col quale il penitente affermava la volontà di conversione e dall’altra allude profeticamente alla sepoltura, posta tra l’evento della morte e quello della risurrezione. Il calice e il battesimo servono a veicolare la consapevolezza che Gesù ha nel vivere gli eventi pasquali imminenti nei quali testimoniare la piena comunione e appartenenza a Dio. Gesù invita i discepoli ad assumere il suo stesso sguardo di fede per non lasciarsi vincere dalla paura che già alberga nel loro cuore. Non solo i discepoli compagni del cammino, ma anche il lettore viene sapientemente guidato a cogliere il valore profetico dell’evento del battesimo al Giordano narrato da Marco in 1, 9-11. In quella scena l’evangelista sottolinea che Gesù uscendo dall’acqua sente la voce dal cielo che attesta la sua identità di Figlio di Dio. Non si tratta di un titolo onorifico che pone Gesù al di sopra degli altri uomini, conferendogli particolari poteri, ma di un modo di vivere nel mondo affinché tutti gli uomini possano essere resi partecipi della medesima dignità assimilando i suoi sentimenti e assumendo lo stesso stile di vita, ispirato al principio dell’amore oblativo. Quindi, la gloria di Gesù, lungi dall’essere ostentazione di potere e ricchezza, è la manifestazione dell’amore di Dio che rifulge tra le tenebre del peccato dell’uomo. Il vero potere è quello esercitato su di sé per fare della propria vita un dono d’amore. Ancora una volta i due apostoli fraintendono le parole di Gesù perché, essendo autocentrati, recepiscono la condizione da lui posta, come richiesta di disponibilità a partecipare insieme al Maestro la lotta per la conquista del suo regno. Essi, intravedendo in Gesù non più il profeta di Dio ma il Cristo condottiero di schiere, prontamente dichiarano la loro decisa disponibilità a far parte del suo esercito e affermano: “possiamo”. Gesù, coniugando i verbi al futuro, conferma che gli apostoli lo seguiranno nella prova, non per raggiungere i loro scopi ma per esercitare il potere di liberare chi è schiavo del peccato e trasmettere ad ogni uomo il vangelo che salva. La missione, infatti, è una, ed è quella di Cristo insieme alla sua Chiesa, la quale non può bypassare l’esperienza della sofferenza e della morte. Anche loro, dunque, vivranno il mistero pasquale di passione e di morte per condividere la gloria del suo regno; tuttavia la presenza, a destra e a sinistra, nel momento più alto della sua gloria, quando sarà riconosciuto Figlio di Dio, spetterà ad altri (i due che vengono con-crocifissi con Gesù). Gesù, spoglio di tutto, muore da innocente tra due malfattori condividendo con loro la stessa condanna. I due ladroni sederanno a destra a sinistra non per i loro meriti ma per il progetto di Dio di rendere Gesù solidale con gli ultimi, i quali diventano i primi destinatari della sua regalità salvifica. Essere primo non significa escludere gli altri, ma accoglierli nella comunione attraverso il servizio. Gesù intende guidare i discepoli nel passaggio di mentalità affinché non concepiscano il ministero come una forma di autorealizzazione ma come occasione di crescita umana e di conformazione a Cristo, loro Unico maestro e modello.
Gli altri dieci, sentendosi esclusi dalla richiesta dei due fratelli, provano sdegno e comprendono anche la reazione indignata di Gesù davanti alla scena in cui gli apostoli cacciano i bambini e impediscono di avvicinarsi al Maestro (10,14). Come era avvenuto precedentemente, si rende necessario un ulteriore insegnamento riservato ai Dodici. Essi devono vigilare su se stessi perché la logica del potere, esercitato da coloro che credono di governare e di essere grandi, non prevalga su quella che il Maestro vuole insegnare e partecipare loro.
L’insegnamento parte dall’esperienza che gli uomini fanno dell’abuso di potere e di autorità. Eppure, tutti i regimi totalitari e i sistemi tirannici si poggiano su un consenso popolare coagulato attorno a principi mondani quali la supremazia di uno sugli altri, di una razza su un’altra, di una cultura su un’altra, di un popolo su un altro, di una religione sulle altre. In queste situazioni il potere e l’autorità diventano strumenti di sottomissione per aumentare ricchezza e influenza. La narrazione evangelica presenta l’esempio di Erode e Pilato vittime del loro governo dispotico e dimostrazione del fallimento di un prototipo politico basato sulla prevaricazione, la repressione e l’ambizione personale. Gesù oppone un altro modello di vita e di autorità. «Tra voi non è così»: Gesù richiama i suoi discepoli all’esperienza con lui. La relazione con Gesù è fondante di uno stile totalmente diverso da quello incarnato dai potenti di questo mondo che si spacciano per benefattori e che, invece, sono solo degli approfittatori e speculatori. Il regno di Dio non schiaccia dall’alto facendo pesare la sua gloria (il termine ebraico corrispondente è «cabod» che significa «peso») e non si impone con la violenza o potere coercitivo. Il regno di Dio manifesta la sua bellezza dovunque ci siano persone guidate dallo Spirito che, come Gesù, rispondono alla chiamata di Dio a diventare «grandi nell’amore» e guide-accompagnatori dei fratelli nel comune cammino di santificazione.
La logica del servizio, che rinuncia allo scontro per favorire l’incontro, deve valere innanzitutto dentro la comunità cristiana (“vostro servo”) e fuori (“schiavo di tutti”). Il v. 45 segna il climax (vertice) dell’insegnamento di Gesù ai Dodici. A differenza di coloro che pensano di governare da despoti e che esercitano sui popoli una tirannide autoritaria, egli è il Figlio dell’uomo, inviato dal Padre, non per farsi servire (caratteristica di ogni regalità umana) ma con la missione di «servire e (fino a) dare la propria vita in riscatto della moltitudine». Il ministero di Gesù raggiunge il suo culmine sulla croce dove dà la sua vita per liberare tutti gli uomini. Il fine della sua missione va oltre l’orizzonte opportunistico di una piccola comunità-setta ma abbraccia l’universo che è chiamato ad essere cosmo, comunità-comunione. Il verbo «riscattare» ha una valenza politica e spirituale. Il riscatto è la somma che viene pagata perché uno schiavo, reso tale da un debito, diventi una persona libera, sciolta da qualsiasi vincolo contrattuale. In alcuni casi il padrone adottava lo schiavo come «familiare» riscattandolo dalla condizione di schiavitù «pagando per lui». Dal punto di vista spirituale il riscatto si applica al debito contratto col peccato. In questo senso il riferimento è a Is 52-53 che annuncia l’avvento della figura misteriosa del Servo sofferente che si carica dei peccati degli uomini per liberarli dal loro effetto mortale. Gesù declina la regalità che salva nel servizio, che non consiste nel dare beni, ma offrire «il bene unico» che è la vita fino alla morte. Gesù, dunque, si propone non solo come modello etico, ma come fonte perenne di servizio a cui attingere per esercitare il primato e l’autorità nel servizio. Non si propone l’annullamento della dignità o della personalità dei discepoli, ma un modo di vivere inteso come servizio basato sulla dedizione e dipendenza da Dio, tipica del servo. Si tratta di un potere che dal basso ha la forza di esercitare una pressione verso l’alto coinvolgendo tutti. Il servizio cristiano è promozione dell’umano. Gesù non è venuto a sostituirsi all’uomo nel dramma della schiavitù dal debito del peccato; egli è venuto a spingere ogni uomo e ogni donna verso la libertà autentica, quella che si esercita nell’amare l’altro, nel prendersi cura di lui e farlo crescere, perché riconosciuto come dono prezioso e irrinunciabile.
MEDITATIO
Dalla bramosia del potere alla compassione
Gesù aveva appena ribadito per la terza volta che a Gerusalemme, dove era diretto con i suoi discepoli, avrebbe subito umiliazione e morte ma da essa sarebbe stato liberato con la risurrezione. Quanto più si avvicinava l’ora della Pasqua tanto più gli apostoli sembravano allontanarsi dal loro Maestro per inseguire le loro fantasie. I discepoli precedentemente avevano già discusso tra loro chi fosse il più grande e, dunque, chi di loro fosse più capace di assumersi la responsabilità di prendere il posto di Gesù. L’idea fissa è quella di guadagnare il posto giusto dal quale gestire e controllare. Le fantasie, caldeggiate e coltivate nell’intimo del cuore, vengono poi proiettate sugli altri caricandoli delle proprie attese. È facile che esse diventino pretese, criteri di scelta e il fine per cui vivere. Tra queste fantasie la più comune, ma anche la più nociva, è l’avidità o sete di potere.
I due fratelli, discepoli della prima ora, chiedono a Gesù di essere i suoi collaboratori più stretti nel momento in cui sarebbe giunto all’apice della gloria e avrebbe conquistato finalmente il potere. Essi esprimono la loro decisa volontà di partecipare all’esercizio della sua autorità. Sembrano avere le idee chiare, ma così non è perché essi, dice loro Gesù, non sanno quello che chiedono. Infatti, quella che sembra essere una semplice richiesta di favore nasconde il tentativo di piegare Gesù alla loro volontà di potenza. Formalmente essi chiedono di partecipare alla gloria di Gesù, ma nei fatti essi pretendono che il Maestro si adatti alla loro volontà. Per il raggiungimento del loro obbiettivo si dichiarano disposti e pronti a bere lo stesso calice di sofferenza di Gesù e a ricevere il suo medesimo battesimo. In realtà, essi non sanno quello che dicono, convinti di poter meritare il premio in forza della loro volontà e capacità di affrontare qualsiasi lotta. Essi sono disposti a fare qualsiasi sacrificio per ottenere ciò che desiderano. Ma Gesù non può dare loro ciò che essi chiedono perché la gloria verso cui è indirizzato il cammino del Signore è di tutt’altra natura. Infatti, egli invita i discepoli a partecipare della sua gloria intesa come servizio e dono della propria vita.
La logica del possesso, fatta propria dai governanti delle nazioni che le dominano e le opprimono, crea fratture nella comunità perché induce coloro che la seguono, o che la subiscono, a forme fratricide di competizione per occupare i posti di prestigio o garantirsi dei privilegi. Il desiderio di raggiungere il potere, che è fine a sé stesso, o semplicemente di intendere la vita solamente come godimento, genera ingiustizie e dissidi; Gesù, al contrario, mette a servizio della volontà del Padre la sua e in quest’opera coinvolge i discepoli per condividere con loro il potere dell’amore che genera pace e giustizia. Gesù è il servo di Dio che si offre a Lui perché si compia la sua volontà e si consegna nelle mani degli uomini per coinvolgersi totalmente nelle loro vicende dolorose, per sanarle, ed educare al servizio. Solo l’amore che si fa servizio sana il cuore dell’uomo e lo salva dalla morte causata dal peccato. Per esercitare il potere dell’amore, che libera e riscatta, bisogna percorrere la via del servizio, la quale passa attraverso la compassione, ovvero la partecipazione alla sofferenza dell’uomo e di Dio, simboleggiata dal calice da bere e dal battesimo nel quale essere immersi. L’obbedienza fiduciosa al Padre genera nel cuore di Gesù la compassione che lo porta a bere fino infondo il calice dell’amarezza e ad essere battezzato, ovvero a immergersi nell’onda del peccato, per indicare il suo pieno e totale coinvolgimento nell’umanità peccatrice. Infatti, la Lettera agli Ebrei parla di Gesù come del Sommo Sacerdote grande perché ha saputo prendere parte alle nostre debolezze, messo alla prova in ogni cosa, escluso il peccato. Perché Gesù si è coinvolto totalmente nella nostra umanità? Per compiere la volontà del Signore, quella di fare di noi un regno e sacerdoti ad immagine di Gesù che è inviato dal Padre per servire e dare la sua vita in riscatto per molti.
Per questo dono di grazia possiamo accostarci e unirci pieni di fiducia a Colui che è stato fatto re e che non esige una tassa da pagare, ma dispensa la grazia che ci rende uomini felici perché a servizio della pace e della giustizia di Dio.
Per meditare … quello che dice Dio alla mia vita
Nella preghiera invoco lo Spirito Santo perché mi faccia comprendere e aderire alla volontà di Dio? La fiducia dell’amore di Dio nei miei confronti vince la paura della sofferenza e della rinuncia a se stessi per aprirmi ad una serena adesione al progetto di Dio? Come valuto la bontà delle mie richieste a Dio, secondo bisogni strettamente individuali o condivisi da tutti? Lo sdegno verso l’ingiustizia, che deriva dall’ambizione e avidità, si traduce in impegno personale a vivere nel feriale la fedeltà al principio della carità che crea comunione? Quanto del male che vedo negli altri è presente in me? Quanto del bene e della giustizia che mi aspetto dagli altri è presente nei miei pensieri, scelte, azioni e parole? Quale modello ispiratore orienta i miei atteggiamenti di fondo?
ORATIO
Signore Gesù,
Pontefice nel quale s’incontrano
la ricchezza della misericordia del Padre
e la miseria della nostra povera umanità,
ci accostiamo a Te
con sentimenti di fiducia e di gratitudine
e ti chiediamo il dono dello Spirito
perché la nostra volontà
sia sempre orientata verso Dio.
Il tuo esempio ci insegni
che grande non è colui che comanda sugli altri,
ma chi si fa servo dei fratelli.
Estingui la bramosia del potere e del possesso,
disinnesca i meccanismi di competizione
che ci rendono avversari e nemici,
donaci la grazia di avere vera compassione
per chi soffre a causa del suo e altrui peccato.
Insegnaci a vincere la paura,
a combattere l’orgoglio,
a sconfiggere la diffidenza che ci dominano
con l’esercizio della preghiera di lode
e del servizio umile e disinteressato
affinché anche noi,
crescendo nel senso di responsabilità verso gli altri,
possiamo essere costruttori di ponti di pace e di vera fraternità. Amen.
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