Buono come il pane – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio Divina
Sap 7,7-11 Sal 89 Eb 4,12-13
O Dio, nostro Padre,
che conosci i sentimenti e i pensieri del cuore,
donaci di amare sopra ogni cosa Gesù Cristo, tuo Figlio,
perché, valutando con sapienza i beni di questo mondo,
diventiamo liberi e poveri per il tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro della Sapienza Sap 7,7-11
Al confronto della sapienza stimai un nulla la ricchezza.
Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Scelta di vita
L’autore del Libro della Sapienza si identifica con il re Salomone che è il prototipo del sapiente d’Israele. Nei primi 6 versetti del cap.7, che precedono la pericope liturgica, Salomone il sapiente, afferma la sua piena appartenenza al genere umano. Questa affermazione non è banale perché una persona importante, come lo è un re, nell’esercizio del suo compito può correre il rischio di autoconvincersi di essere superiore agli altri uomini per il solo fatto che è a loro capo. Il re sapiente, invece, deve sempre essere umile e mantenere viva la consapevolezza della propria umanità. La regalità (lo stesso si può dire di ogni titolo e incarico), come la vita, è un dono che si riceve gratuitamente da Dio; il parallelismo tra regalità e vita continua anche sul piano dell’esperienza perché l’una e l’altra non coincidono con le cose da fare e il loro valore non si misura su quanto si guadagna, ma si manifestano nelle varie declinazioni del modo di essere. Come la vita non può ridursi semplicemente alle dinamiche biologiche, così la regalità non può sottomettersi a quelle del potere. Vita e regalità sono i luoghi teologici nei quali Dio opera a beneficio di tutti nella misura in cui la persona le interpreta come doni Suoi e le vive come tali.
In quest’ottica il re comprende che senza la sapienza la sua vita e la sua regalità sono realtà vuote. La Sapienza non si acquista né si conquista ma la si riceve mediante la preghiera che fa dell’uomo la terra che si lascia fecondare dalla Parola. La ricezione della Sapienza richiede un discernimento della priorità e una scelta di vita. Con la Sapienza che viene da Dio si riceve tutto il bene possibile. I Sapienti d’Israele non hanno identificato la sapienza con la somma delle conoscenze o competenze ma l’hanno personificata in Dio. Il sapiente cerca il volto di Dio per entrare in dialogo con lui. La scelta è l’esercizio della libertà che, illuminata dalla ragione dell’amore divino, risponde alla elezione di Dio con l’opzione fondamentale della vita: voler amare Dio e appartenergli come figlio.
Salmo responsoriale Sal 89
Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.
Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.
Dalla lettera agli Ebrei Eb 4,12-13
La parola di Dio discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
La conoscenza di sé e l’amore a Dio
La parola di Dio è pronunciata e inviata da Dio per incarnarsi. Questo inizia ad accadere in maniera efficace con Gesù. Dio ha parlato diverse volte e in molti modi nei tempi antichi attraverso i profeti. Essi si sono fatti portavoce della parola di Dio che chiedeva di accoglierla e interiorizzarla per metterla in pratica. Con Gesù, Parola di Dio, essa «come spada» penetra nel cuore, luogo teologico nel quale l’uomo conosce sé stesso, con le sue debolezze e i suoi carismi, le fragilità e i punti di forza. Ma soprattutto, la parola di Dio, fa sperimentare nella profondità del cuore la gioia di essere amati e salvati. La parola di Dio fa percepire di essere alla Sua presenza. Davanti a Lui non dobbiamo scappare per la vergogna ma affidarci alla sua misericordia perché con essa riceviamo vita e siamo trasformati in Dio.
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 10,17-30
Vendi quello che hai e seguimi.
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
LECTIO
La pericope liturgica è formata da tre scene: nella prima (vv. 17-22) Gesù incontra un uomo ricco che sceglie di conservare i suoi beni piuttosto che seguire il solo vero bene; nella seconda (vv. 23-27) e nella terza (vv.28-30) scena Gesù interloquisce prima con i discepoli, disorientati dalle affermazioni di Gesù circa le condizioni per appartenere al Regno di Dio, e poi con Pietro che vuole sincerarsi sull’utilità della scelta del discepolato.
L’ultima tappa del viaggio verso Gerusalemme è scandita da due incontri, quello con un uomo che possedeva molte proprietà e il cieco Bartimeo che mendicava coperto solo da una coperta. L’esito dei due incontri è diverso, infatti il primo decide di non lasciare i suoi beni, rifiuta la chiamata di Gesù e rinuncia a seguirlo, mentre il secondo non esita ad abbandonare anche l’unica cosa che possiede per lasciarsi guidare dalla parola di Gesù e per seguirlo lungo la via (10, 46-52). La via verso Gerusalemme fa da sfondo ad entrambi gli incontri (v. 17.52). La «strada» insieme al verbo «seguire» funge da inclusione (v. 21.52). La sequela di Gesù è il vertice del comando dato all’uomo ricco ed è anche l’epilogo della vicenda di Bartimeo che viene guarito dalla cecità.
La prima scena delle tre, dunque, è aperta dalla corsa di un tale, che rimane sempre nell’anonimato, il quale, giunto da Gesù cade in ginocchio davanti a lui. Secondo l’etimologia della parola, correre è un’azione considerata in rapporto a uno scopo, un fine, una meta, o una vocazione per cui vivere. Essere in corsa è anche un gesto che esprime entusiasmo di chi non si accontenta di quello che ha già tra le mani e desidera incontrare la “ricchezza vera”; va in cerca di una fonte della felicità. Non manca una buona dose di platealità nell’atteggiamento del tale al punto che costringe Gesù a fermarsi. Si rivolge a lui chiamandolo «Maestro buono». Con questo appellativo gli si riconosce un’eccellenza dell’insegnamento che va al di là delle interpretazioni della legge, che non toccano le istanze più profonde dell’esistenza, per indicare la via che conduce a vette della vita ben più alte delle esigenze dei comandamenti. L’interlocutore di Gesù, diversamente dagli altri, non chiede una guarigione ma una parola che orienti il suo agire quotidiano per raggiungere l’obbiettivo di vivere da figlio di Dio ed ereditare da lui la vita eterna. Essa, infatti, non è la vita dopo la morte, ma lo Spirito di Dio, il bene celeste, fonte di ogni bene. La replica di Gesù è affidata innanzitutto ad una ulteriore domanda circa il motivo dell’appellativo buono che è riservato solo a Dio. Gesù riconosce che le cuore di quella persona agisce lo Spirito che lo spinge verso di lui e gli ispira non solo la speranza della vita eterna ma anche l’intelligenza della fede nel riconoscere in Gesù una qualità divina. La bontà del maestro non risiede nella sua sapienza o in un particolare carisma ma nell’essere un uomo di Dio, da Lui inviato e ispirato. Dire «Maestro buono» è come dire «Maestro dello Spirito» che non insegna dottrine ma condivide la sua esperienza di Dio che gli comunica la bontà affinché essa diventi patrimonio spirituale di chi si fa pellegrino di fede. Gesù non rifiuta l’appellativo di «maestro buono» ma chiarisce che esso è una sorta di professione di fede. Quello del tale è un bisogno prettamente spirituale che chiama in causa la relazione con Dio inteso come Padre da cui si attende l’eredità. Tuttavia, il quesito posto a Gesù lega l’eredità della vita eterna alle opere da lui compiute. La risposta di Gesù ha come obbiettivo quello di capovolgere la prospettiva del suo interlocutore: non si diventa buoni come Dio facendo le opere buone ma si possono fare le opere nella misura in cui si accoglie il bene di Dio e ci si lascia conformare a Lui. La vita eterna è la santità; essa non si raggiunge come scalando una montagna, superando le prove che sono progressivamente sempre più difficili. Il Maestro sa bene che il tale è un pio israelita che conosce bene i comandamenti; infatti, ammette di praticarli sin dalla giovinezza. Gesù invita a fare il punto della strada partendo dalla verifica circa la propria relazione con gli altri fratelli. I comandamenti citati riguardano la seconda parte del decalogo che regola i rapporti con gli altri, quindi la giustizia sociale. Nell’elenco dei divieti del Decalogo, che culmina con il precetto positivo del rispetto filiale riservato ai genitori, è inserito anche quello che riguarda la frode o l’inganno. Questo particolare rivela che Gesù sa che quell’uomo possiede molti beni forse perché è un amministratore al quale si richiede innanzitutto la fedeltà all’incarico affidatogli e responsabilità nel non approfittare della sua posizione di dominio. La via della santità non è per «solisti», «lavoratori autonomi», «battitori liberi», «mistici solitari» o «ministri freeland» ma attraversa tutti gli ambiti della giustizia sociale e tutti gli aspetti della vita. L’onestà propria del corretto cittadino è il punto di partenza del cammino della santità che però punta verso una meta ben più alta e che il cuore desidera. A questo si aggiunga anche che le buone intenzioni non coincidono con la benevolenza e che la rettitudine morale non esaurisce la portata della santità. C’è un modo di operare la giustizia che è autoreferenziale e che è messa in discussione quando è chiesto di anteporre il bene di Dio al proprio. Il cuore della prima scena del racconto è lo sguardo di Gesù pieno di amore da cui scaturisce la parola con la quale invita a diventare suo discepolo. Unendo i due verbi, «guardare intensamente» o «fissare lo sguardo» e «amare», l’evangelista rivela all’ascoltatore/lettore ciò che si instaura tra i due interlocutori. Gesù non risponde all’interrogativo dell’uomo e non risponde immediatamente alle sue istanze ma prende l’iniziativa. Si tratta di un movimento tutto interiore e spirituale nel quale si manifesta la benevolenza di Dio. Lo sguardo di Gesù non cattura l’altro per sottometterlo al suo dominio, ma apre un varco attraverso gli occhi per giungere al cuore di quell’uomo e fargli sentire la gioia di essere amato. È un anticipo della beatitudine della vita eterna. Il verbo che traduciamo con «fissare lo sguardo» si potrebbe rendere con «lo guardò negli occhi». Il verbo amare non indica tanto un moto emozionale, quanto invece il movimento del cuore che si sbilancia verso l’altro nell’atto di consegnarsi. Lo sguardo di Gesù è, dunque, pieno di gioia perché carico di amore, stima, affetto, tenerezza. Nel cuore dell’uomo non mancano desideri nobili, meriti che gli fanno onore, consapevolezze dei pregi e difetti, progetti di bene, ma sembra che tuto questo poggi sul proprio io che corre il rischio di prendere il posto di Dio. Più che tradurre l’espressione di Gesù «Ti manca solo una cosa» la si potrebbe rendere così: «Ti manca l’“uno”», ovvero manca colui che è l’unico bene per cui vivere. Infatti, la ricerca dell’uomo è animata da un bene che sente fuori di sé e che desidera fare proprio. Gesù, invece, con il suo sguardo d’amore gli rivela che il bene più grande a cui il suo cuore anela è già presente e il regno di Dio ha già le porte aperte per accoglierlo. Gesù, ascoltando la professione di fede dell’uomo e la sua confessione, avrebbe potuto certificare già la sua santità, eppure chiede di fare un salto di qualità nella sua condotta di vita. All’obbedienza della legge egli deve aggiungere l’obbedienza alla parola del Maestro affinché, interiorizzandola e mettendola in pratica, egli possa assimilare i suoi sentimenti e fare esperienza della vita eterna amando come egli è amato da Gesù. Il Maestro buono non indica la via di comandamenti, antichi o nuovi, in cui si alza progressivamente il livello di difficoltà e coraggio, ma invita il candidato al discepolato a predisporre il suo animo a ricevere l’amore di Dio dall’uomo della croce, il quale, in obbedienza alla volontà del Padre si è lasciato spogliare di tutto e donato la vita, «l’unico bene», ai poveri peccatori. Gesù, come aveva già annunciato due volte e prima di farlo la terza volta, offre come modello di vita ai discepoli e ai candidati al discepolato, sé stesso, Lui che si è fatto povero con i poveri e si è lasciato trattare da peccatore come tutti i peccatori.
La proposta di Gesù spiazza il candidato discepolo perché il Maestro buono non corrisponde alle sue attese e non è in linea con le sue idee. Il volto raggiante di speranza e pieno di entusiasmo diventa «scuro» riflettendo esteriormente il buio interiore della delusione. La tristezza la si legge in faccia e la parola tace inghiottita dall’amarezza. Era giunto correndo e se ne va con passo lento e dimesso. Nel racconto non si dice che il tale dopo essersi inginocchiato si alzò. Potremmo immaginare che Gesù abbia unito allo sguardo e alla parola di vocazione il gesto di alzarlo per parlargli faccia a faccia guardandogli negli occhi. La delusione nasce dai comandi che dà prima di dire «seguimi». Non era forse già degno di essere annoverato tra i suoi discepoli? Il discepolato non inizia dopo che si è andati tra quelli che già si conoscono per vendere ogni bene e darlo ai poveri, ma la sequela di Cristo consiste proprio nella scelta di abbandonare ogni cosa per essere totalmente di Dio. Infatti, il «tesoro nei cieli» che si possiede altro non è che Dio stesso. Dio non è un idolo che puoi tenere in mano come un talismano che assicura successo, salute e benessere. Ma è Colui che entrando nel cuore dona pace perché garantisce il raggiungimento della salvezza, ovvero il vivere la pro-esistenza. La povertà è la via ordinaria della santità e non il «sacrificio eroico» chiesto ad alcuni. La santità è vivere dell’amore di Dio e nell’amore di Dio.
In realtà, non abbiamo elementi per dire che quell’uomo abbia rifiutato l’invito di Gesù. Sappiamo solo che non era pronto a fare quel salto di qualità nel suo cammino di santità perché legato alla mentalità contabile dell’amministratore. I beni materiali esercitano una forza d’attrazione maggiore rispetto a quella di Gesù, perché i primi stimolano l’innata tendenza ad accumulare al fine di garantirsi sicurezza per il futuro, mentre il secondo provoca alla drammatica scelta di aprire le mani, lasciare la presa sui beni, e per aprire il cuore e accogliere l’amore che trasforma la vita e la orienta la scelta di donarla gratuitamente. La tristezza accomuna il ricco e i Dodici (cf. Mc14,19). Entrambi i personaggi si lasciano vincere dalla paura di perdere ciò che credono di possedere e di gestire secondo le proprie idee.
Lo sguardo di Gesù nella seconda scena non è più rivolto verso il ricco che è andato via triste, ma verso i discepoli che sono attorno a lui facendogli corona. L’esperienza appena fatta con l’uomo ricco è l’occasione per Gesù di fare una riflessione sui beni e sulla ricchezza. Nella mentalità dell’Antico Testamento la ricchezza è vista in maniera articolata: come segno della benevolenza divina, ricompensa per la fedeltà dell’uomo; nel linguaggio profetico la ricchezza spesso è sinonimo di opulenza e insensibilità che causa ingiustizia sociale. Anche la tradizione sapienziale giudica la ricchezza che può essere frutto di un giusto lavoro, oppure causa dell’ indurimento del cuore dell’uomo, inducendolo ad assumere la mentalità consumistica che lo porta alla miseria. L’immagine volutamente paradossale del cammello che non può passare dalla cruna di un ago esprime l’umana impossibilità a raggiungere la vera felicità, con le sue forze, con ciò che possiede e che usa egoisticamente. L’uomo da una parte percepisce la necessità di un’umanità compiuta nella pace e nella comunione, scrollandosi di dosso gli aspetti problematici delle ricchezze, dall’altro il loro fascino, percepito come garanzia di sicurezza, lo porta a non prenderne le giuste distanze, valutandone sapientemente il loro reale valore. C’è una sproporzione tra la grandezza del cammello e la piccolezza della cruna di un ago, così tra la grandezza dell’opera di Dio a cui nulla è impossibile e la piccolezza delle opere umane che da sole non sono sufficienti per garantirgli la vita eterna. Il narratore passa da concetto di sequela a quello di accesso al regno di Dio per approdare a quello della salvezza. Infatti, dall’invito di Gesù alla sequela rivolto all’uomo ricco (v.21) si transita alla considerazione che il ricco difficilmente può entrare nel Regno di Dio (v.23); questa affermazione di Gesù è interpretata dai discepoli come impossibilità a salvarsi (v.26). La sequela cristiana non proietta il discepolo solamente nella vita dopo la morte, ma lo inserisce a pieno titolo nel cammino della vita terrena. Il problema non sono le ricchezze in sé ma il rapporto con esse e quanto l’attaccamento alle proprietà influisce sulla relazione con Dio e gli altri.
La domanda di Pietro da una parte è una presa di distanza dall’anti-modello dell’uomo ricco, e dall’altra è una sorta di rivendicazione di conformità alla volontà di Gesù che li ha chiamati. Essi, infatti, hanno lasciato tutto e l’hanno seguito. Cosa riceveranno? Cosa si aspettano di ricevere?
La gioia piena (il centuplo) è vissuta durante il cammino esistenziale dietro Gesù. Essa non è contraddetta dalle sofferenze che, al contrario, diventano luoghi esistenziali nei quali il pieno affidamento a Cristo, porta i suoi frutti per i singoli e tutta la Chiesa. La vita eterna è il fine di quello che è, alla sequela di Gesù, è un pellegrinaggio la cui meta è il regno di Dio. Esso è la comunità dei fratelli che si lasciano amare da Dio e lo amano offrendo tutta la propria vita per bene di tutti i fratelli. Chi segue Gesù fino alla croce, lasciandosi spogliare di tutto, s’immerge con lui nel mistero della morte, dalla quale viene salvato dalla mano di Dio, per essere rivestito della dignità di Figlio di Dio.
MEDITATIO
Buono come il pane
«Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza» con questa testimonianza del re Salomone, a cui è attribuito il Libro della Sapienza, si apre la liturgia della Parola di questa domenica. La Prima Lettura introducenella comprensione della pagina evangelica che presenta inizialmente l’incontro tra Gesù e un anonimo personaggio, il quale gli rivolge una supplica. Richiede al Maestro buono una parola che lo guidi nelle scelte di vita in modo da meritare il conseguimento del premio della vita eterna. La preghiera di quest’uomo riflette quella che spesso eleviamo a Dio invocando la sua bontà per chiedergli la soluzione dei nostri problemi. Gesù non ha una ricetta pronta né agisce come un mago che di colpo fa scomparire le difficoltà. Egli è colui che si fa nostro compagno di strada per aiutarci a scoprire la volontà di Dio e attuarla. Dio che è l’unico buono ha offerto la legge perché, attuandola possiamo scoprire la volontà di Dio e realizzarla. Sulla via dei comandamenti Dio si fa nostro compagno di strada. Dove ci conduce questa strada e la compagnia di Dio? Ad entrare nel suo Regno e a far parte della sua famiglia. Dunque, la vita eterna non consiste nell’avere ma nell’essere. In definitiva, l’obbiettivo del cammino della vita non è ereditare la vita eterna, intesa come conseguimento di beni, ma diventare come Gesù. La via dei comandamenti, che l’aspirante discepolo ha percorso fin dalla giovinezza, non conduce tanto all’acquisto di meriti ma all’educazione del cuore e all’acquisizione della sapienza, ovvero dello sguardo d’amore con il quale Gesù guarda l’uomo. Infatti, il fine della Legge è quello di aiutarci a purificare il nostro cuore affinché possiamo guardare le persone che ci circondano e le cose di cui disponiamo non con bramosia di possesso o controllo, come se fossero beni di consumo, ma con uno sguardo d’amore che riconosce in essi un dono di Dio. Gesù guarda l’uomo che era andato da lui con l’amore penetrante che solo la bontà di Dio può avere. Possiamo anche noi avvertire questa luce che ci penetra nel cuore quando ascoltiamo la Parola di Dio che è viva ed efficace, dice la lettera agli Ebrei, come una spada a doppio taglio. Dio ci ama non perché siamo perfetti, ma per raggiungerci anche nella parte più profonda del nostro essere e illuminarlo. Gesù offre a quell’uomo non dei suggerimenti o pii consigli, ma l’opportunità di cambiare. La sapienza di Dio non è il mezzo con il quale cambiamo il mondo rendendolo conforme alle nostre attese, ma è la forza del suo amore che cambia il cuore per conformarci a Cristo. La conversione è un’occasione che Dio offre valorizzando il cammino che si sta già compiendo fatto anche di sacrifici e rinunce. Convertirsi non significa gettare via la propria vita ma orientarla verso l’unica bontà e l’unica bellezza la cui fonte è Dio e il cui riflesso sono in grado di rintracciarlo nelle persone che incontro e nei beni che ricevo ogni giorno. Il tale, abituato a mettere in pratica i comandamenti, è allenato a fare rinunce, ma le finalizza alla realizzazione del proprio io. In altri termini, la logica comune è quella commerciale per la quale lasciare qualcosa ha senso se è un investimento per guadagnare di più. È appunto questa logica il primo ostacolo alla felicità intesa come sequela e imitazione di Gesù. Gesù indica nell’osservanza della Legge l’inizio del cammino di conversione che non mira a renderci miseri e straccioni ma poveri di cuore. Questa è la condizione necessaria e sufficiente per fare del cammino della vita un pellegrinaggio della santità ed entrare nel Regno di Dio nel quale vivere le relazioni familiari in modo cristiano, ovvero secondo la legge dell’amore. Lasciare i beni effettivi e affettivi significa vivere con libertà le relazioni con le persone e le cose instaurando rapporti generativi, non possessivi. Solo nella logica dell’amore, acquisendo lo stesso sguardo con il quale Dio ci guarda, possiamo cogliere il valore autentico delle cose e delle persone. Ogni legame affettivo e ciascun bene posseduto hanno valore nella misura in cui sono vissuti nella logica dell’amore soprattutto ai poveri, quelli, cioè, che non hanno nulla da restituirci e in alcun modo possono farci guadagnare qualcosa se non la felicità. Non è vero che la vita è fatta di rinunce! Gesù propone di riprogrammare la vita per affrontarla, con le sue rinunce e fallimenti, non con spirito di rassegnazione ma di iniziativa. Non si rinuncia per avere di più ma per essere come Cristo, uomini e donne capaci di portare il vangelo ai fratelli per generarli alla fede.
ORATIO Signore Gesù, Maestro buono, che obbedendo alla volontà del Padre ti sei sottomesso alla Legge per essere nostro fratello e compagno di viaggio nel cammino della vita, indicaci e guidaci sulla via della santità. La tua Parola sia una lama di luce che penetra nel mio cuore affinché possa discernere i pensieri e separare quelli generati dall’avidità e dall’orgoglio e i ragionamenti ispirati dalla sapienza del Vangelo. Donami un cuore libero, puro e saggio capace di filtrare emozioni, sentimenti e propositi in modo da custodire e coltivare solamente ciò che viene da Dio e lasciar cadere quello che viene dal demonio. Aiutami a spogliarmi dell’ambizione egoistica e dalla presunzione che mi induce ad usare le persone come strumenti per il raggiungimento dei miei obbiettivi. Guarisci il mio sguardo perché non vada in cerca di cose grandi, ma desideri incontrarti, conoscerti, amarti e imitarti. Da solo non riuscirò mai ad essere felice, ma confido nella bontà di Dio che ha il potere di trasformare il mio cuore per renderlo buono come il suo. Non ti chiedo di essere bello come il sole ma di essere buono come il pane perché chiunque ne gusti possa benedirti per sempre. Amen.
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