XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina
Ger 23,1-6 Sal 22 Ef 2,13-18
O Padre, che nella parola e nel pane di vita
offri alla tua Chiesa la confortante presenza
del Signore risorto,
donaci di riconoscere in lui il vero re e pastore,
che rivela agli uomini la tua compassione
e reca il dono della riconciliazione e della pace.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Geremìa Ger 23,1-6
Radunerò il resto delle mie pecore, costituirò sopra di esse pastori.
Dice il Signore:
«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore.
Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore.
Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore.
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –
nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto,
che regnerà da vero re e sarà saggio
ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.
Nei suoi giorni Giuda sarà salvato
e Israele vivrà tranquillo,
e lo chiameranno con questo nome:
Signore-nostra-giustizia».
Pastori secondo il cuore di Dio
L’oracolo di Geremia verte attorno all’immagine del pastore quale rappresentazione del capo, ispirandosi alla figura di Davide, il pastore diventato re. La pericope liturgica è la risultante di oracoli distinti nel tempo; la loro composizione, come appare oggi nel testo biblico, è una sintesi della storia della salvezza. Lo schema che ne risulta è quello classico degli oracoli di salvezza: denuncia-castigo-sostituzione-promessa. Il profeta denuncia la colpa dei capi che con il loro atteggiamento folle hanno causato la dispersione del popolo. Il riferimento storico diretto è alla prima deportazione in terra di Babilonia. La colpa dei capi consiste nel non aver tenuto conto dei bisogni del popolo, ma solo dei propri sogni di grandezza, e nell’aver cacciato il gregge dalla propria terra ovvero di aver allontanato Israele dal Signore. La sentenza prevede il castigo che segue la legge del contrappasso: i capi, che credevano di non dover dare conto a nessuno, si ritrovano a dover rendicontare la loro opera ed essere giudicati in base ai loro misfatti. Il peccato dei cattivi pastori consiste nella corruzione della missione loro affidata da Dio: invece di pascere e prendersi cura del gregge lo hanno traviato. L’oracolo non si ferma alla sentenza di condanna ma si apre all’itinerario della giustizia che vede Dio stesso protagonista per il semplice fatto che Egli rimane l’unico vero pastore d’Israele. Riafferma l’appartenenza del popolo a Lui e rivela la sua strategia per recuperare il rapporto con il suo gregge. Questo avviene in tre tempi: il rimpatrio dei deportati, la costituzione di pastori giusti e la consacrazione del re-pastore il cui nome è «Signore-nostra-giustizia». L’oracolo di Geremia intende fondare la speranza del popolo che vive il dramma dell’abbandono. Il profeta offre la chiave di lettura per cogliere nelle proprie vicende, spesso contorte e travagliate, l’opera di Dio che sempre apre strade per ritornare alle sorgenti della vita e offre occasioni per ristabilire relazioni fraterne intessute di giustizia e carità. I destinatari dell’amore di Dio che recupera e sana sono costituiti a loro volta pastori. Essi non sostituiscono il Pastore ma sono incaricati di continuare e diffondere in maniera capillare l’amore di Dio: pascere quella piccola porzione di gregge loro affidata facendo crescere in esso il senso dell’appartenenza e dell’obbedienza al Pastore. Tutto il tempo converge verso il suo culmine quando sarà consacrato e costituito il grande Pastore, colui che pasce tutto il gregge con giustizia e misericordia. Questa figura messianica supera e porta a compimento quella di Davide il quale è un anello nella catena della storia della salvezza. La promessa di una nuova generazione non si riferisce alla fecondità fisica ma a quella spirituale grazie alla quale i nuovi pastori diventano guide di un popolo capace di generare figlie e figli di Dio.
Salmo responsoriale Sal 22
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni Ef 2,13-18
Egli è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola.
Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo.
Egli infatti è la nostra pace,
colui che di due ha fatto una cosa sola,
abbattendo il muro di separazione che li divideva,
cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo,
per mezzo della croce,
eliminando in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani,
e pace a coloro che erano vicini.
Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri,
al Padre in un solo Spirito.
«Non più due ma una sola carne»
Paolo, parlando ai membri della comunità cristiana di Efeso, ricorda la loro origine pagana e, in quanto tali, esclusi dalla prima alleanza che Dio aveva stipulato con Israele. Gli Israeliti, attraverso il segno della circoncisione, volevano attestare il loro legame di appartenenza all’unico vero Dio; era un legame esclusivo ed escludente perché la coscienza di essere il popolo eletto ingenera l’idea di essere anche l’unico popolo giusto. La novità di Gesù sta nell’aver abbattuto i confini dell’amore di Dio per includere tutti gli uomini. Morendo sulla croce Gesù ha distrutto il peccato che è la vera barriera che separa da Dio e divide gli uomini tra loro. La pace che Gesù ha inaugurato con il suo sacrificio è la pienezza della volontà di Dio: che tutti siano una cosa sola. Le braccia aperte sulla croce sono le porte del cuore di Dio spalancate ad accogliere tutti gli uomini. Innalzato da terra e intronizzato sulla croce, Gesù diventa il Re dei re, il Pastore dei Pastori ed attira tutti a sé perché si formi un unico popolo sotto un solo Signore. Credere in Gesù non significa solamente avere la consapevolezza di appartenere a Dio che si prende cura di noi e ci benedice con la pace, ma comporta che anche noi camminiamo gli uni verso gli altri per incontrarci come fratelli. Una è la via che conduce al Padre e una è la strada che ci congiunge nella pace: Gesù Cristo, via, verità e vita.
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 6,30-34
Erano come pecore che non hanno pastore.
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
LECTIO
La pericope liturgica, saltando la parentesi narrativa del martirio del Battista (7, 14-29), riprende il racconto della missione evangelizzatrice affidata da Gesù ai Dodici (6, 7-13). L’evangelista Marco usa il temine «apostoli» non come sinonimo generico di «inviati» o «messaggeri», ma come termine tecnico per indicare, come fa anche Paolo nei suoi scritti, coloro che sono pienamente coinvolte nella missione dell’annuncio del Regno di Dio e nelle dinamiche evangeliche che esso attiva. Il ritorno degli apostoli (v. 30) fa da pendant al loro invio narrato nei vv. 7-13. Essi sono quelli che Gesù ha voluto intorno a sé che si riuniscono attorno a lui a rendere visibile il legame familiare che li unisce tra loro. Gesù è il centro e il perno della comunità che vive l’intimità nella forma della narrazione dell’esperienza di missione. Nella partecipazione a tutti del proprio vissuto l’accento viene posto sul fare a cui segue l’insegnamento. Gli apostoli appaiono più uomini del fare che annunciatori della Parola. Nel prosieguo del racconto Gesù riprende il ruolo di guida capovolgendo la priorità e facendo anticipare l’opera prodigiosa dei pani moltiplicati con l’insegnamento prolungato. Il contesto appare contrassegnato da una certa confusione dovuta al movimento continuo della folla. Il viavai della gente è dovuta al fatto che essa non è nelle condizioni di procurarsi da sé il cibo da mangiare. L’espressione «non avevano neanche il tempo di mangiare» può essere intesa che gli apostoli, come la folla che accorre, non erano nelle condizioni di procurarsi il cibo. Riferita agli apostoli l’inciso può significare che la loro missione li ha condotti innanzitutto a immedesimarsi nella condizione di povertà materiale e spirituale della gente. Nel vangelo di Luca Gesù applica a sé la profezia di Isaia, consacrato e inviato a evangelizzare i poveri (Lc 4); Matteo pone come primi destinatari dell’insegnamento i «poveri in spirito» (Mt 5).
Nei volti degli apostoli Gesù vi legge la stanchezza che è la stessa della gente che essi hanno incontrato e di cui si sono presi cura testimoniando con i fatti la prossimità di Dio. Probabilmente gli apostoli si sono scontrati anche con la delusione di chi, magari dopo un’iniziale entusiastica accoglienza, nella loro opera e nelle loro parole non ha trovato la soddisfazione alle domande e aspettative che portava nel cuore. Di qui l’invito a ritirarsi in solitudine in un luogo deserto. Le parole di Gesù ai Dodici richiamano alla mente quelle di Dio nel libro degli oracoli del profeta Osea: «la condurrò nel deserto e la parlerò al suo cuore» (Osea 2,16). Il luogo isolato è lo spazio nel quale vivere un’intimità ancora più profonda con Gesù grazie alla quale convertire gli affanni della vita in una vera esperienza dello Spirito che ricrea. Non si tratta di isolarsi e staccarsi dalla realtà, quanto piuttosto di rifondare e di rimotivare la missione radicandola in una maniera più forte alla relazione con Gesù per assumere i suoi sentimenti.
La proposta di Gesù viene accolta e la piccola comunità riunita nella barca riprende il viaggio verso la destinazione indicata e della quale si ribadisce essere un luogo deserto, che per definizione è un posto inospitale e pieno di insidie, abitato per lo più da animali selvatici. Come può un luogo deserto essere capace di rispondere al bisogno di riposo? Nell’ottica degli apostoli il luogo deserto era quello senza la presenza della gente le cui attese e pretese stavano diventando fonte di preoccupazione per i discepoli missionari. Nella storia d’Israele il deserto è il luogo in cui la moltitudine del popolo d’Israele si lamentava contro Dio delle condizioni d’indigenza nelle quali si era venuta a trovare seguendo Mosè. L’insistenza dell’evangelista sul luogo deserto potrebbe suggerire al lettore di leggere la vicenda alla luce nel racconto dell’esodo e dei rapporti conflittuali che avevano contraddistinto il cammino. I Dodici richiamano esplicitamente le tribù che componevano in origine il nascente popolo d’Israele. I dubbi dei pellegrini del deserto sono gli stessi dei Dodici. Il deserto è l’esperienza della purificazione del cuore, della separazione dal peccato accovacciato alla porta come il nemico che tende insidie, prima ancora che allontanamento da chi o da cosa possa essere fonte di turbamento.
I Dodici nella loro missione corrono il rischio, e avvolte cadono nel pericolo, di rincorrere affannosamente i propri obbiettivi, non accorgendosi che essi inseguono sogni che non sono corrispondenti alla volontà di Dio. Similmente la folla (i «molti») inseguono il gruppo degli apostoli precedendoli a piedi, ovvero con i loro poveri mezzi. I Dodici seguono le indicazioni del Maestro mentre la folla insegue la comunità. In parallelo sono le lente bracciate per navigare sull’acqua che non presenta particolari difficoltà e i passi frettolosi di chi corre verso il luogo dell’incontro con Gesù. In uno sguardo d’insieme ciò che prima sembra essere distinto, ora si ritrova nuovamente insieme: prima i Dodici senza Gesù, poi gli apostoli senza la gente, infine nello stesso luogo sotto la guida del Signore si riuniscono i Dodici e la folla.
Giunti a destinazione Gesù scende dalla barca. Marco non annota che lo seguono gli apostoli. L’attenzione è tutta concentrata su Gesù e sul suo sentimento ci compassione alla vista di quella folla. Dominano i verbi di movimento: all’uscire dalla barca, simbolo della zona di comfort, fa riscontro il verbo della compassione che è il movimento interiore delle viscere materne. La direzione del movimento è verso la folla. L’attesa della gente è espressione di accoglienza di Gesù che si dà ad essa innanzitutto col dono della Parola.
L’immagine del gregge senza pastore rende bene la realtà di un popolo bisognoso di una guida che dia senso al cammino della vita. In particolare in 1 Re 22 il re cattivo Acab, prima di intraprendere una campagna bellica per sete di potere e avidità di ricchezze, chiede il parere dei profeti di corte. Essi, tutti appiattiti sulle velleità del sovrano, lo incitano a portare a termine i suoi progetti bellici. Viene interpellato anche un profeta che è ritenuto un portatore di sfortuna e di cattive notizie il quale, uscendo dal coro profetizza l’esito negativo della guerra: «Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore. Il Signore dice: “Questi non hanno padrone; ognuno torni a casa sua in pace!”» (1Re 22,17). Nella tradizione anticotestamentaria, in cui forte è l’impronta lasciata dall’esperienza di popolo nomade e a vocazione pastorale, Israele è il gregge che appartiene al pastore per eccellenza che è Dio. Come tutti i popoli anche l’eletto volle essere governato da re che però spesso non furono all’altezza della loro missione. Tante sono le pagine nelle quali si stigmatizza la malvagità delle autorità che a causa della sete di vanagloria hanno tradito l’alleanza con Dio, allontanandosi da lui e facendo deviare il popolo verso il peccato d’idolatria. Dio si è impegnato ad assumersi in prima persona la responsabilità di guidare e curare il suo popolo nella persona del pastore «secondo il suo cuore». Egli, a differenza degli altri, non antepone i propri interessi alle esigenze del popolo ma si pone al suo servizio andandogli incontro. I Dodici sembrano essere spettatori ma in realtà essi assumono il ruolo di discepoli che imparano seguendo l’esempio del loro maestro. Dunque, Gesù, vedendo la folla si sente interpellato da Dio perché nel suo cuore riecheggiano le parole della Scrittura tra cui anche quella di Nm 27,17 in cui Mosè chiede a Dio di dare alla comunità d’Israele un uomo che sia a capo e che lo guidi nel suo cammino perché non si perda. Gesù assume la responsabilità di pastore e guida del gregge abbondando nel dono della Parola. Egli è veramente colui che aspetta il popolo di Dio perché è «Come un pastore che fa pascolare il gregge, lo raduna col suo braccio, porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).
MEDITATIO
Missione compiuta?
La pagina evangelica di questa domenica riprende il racconto dell’invio missionario degli apostoli. Tra l’inizio dell’esperienza della missione e la sua conclusione, la narrazione inserisce un intermezzo nel quale si descrive il martirio di Giovanni Battista. Questo racconto ad incastro intreccia il tema della missione con quello della testimonianza che giunge fino al punto di perdere la vita a causa del vangelo. Il narratore non racconta solamente una cronaca ma, giocando con la tecnica della dissolvenza delle immagini, legge l’attività dei missionari in controluce con il martirio del Battista. In tal modo intende preparare il lettore ad entrare nella logica di Gesù, quella stessa che il Maestro vorrebbe far passare attraverso il suo insegnamento in parole e gesti.
Dopo una prima esperienza di missione in autonomia, gli apostoli si riuniscono attorno a Gesù per raccontagli ciò che è accaduto, il loro contatto con la gente, il modo con il quale hanno affrontato le difficoltà, gli effetti della loro predicazione e magari hanno anche esposto le loro idee o strategie per divulgare il vangelo oltre i confini.
La replica di Gesù è l’invito ad andare con lui in disparte, in un luogo deserto, loro soli, per riposare. Il narratore spiega il senso dell’iniziativa alludendo alla preoccupazione che Gesù ha per i suoi apostoli che si erano gettati a capofitto nella missione al punto di non avere il tempo per mangiare.
Chi non mangia rischia di venir meno lungo la strada. Lo stesso rischio lo corrono coloro che si lasciano prendere dal lavoro e corrono il serio pericolo di esaurirsi. Tuttavia, vi è un’insidia più pericolosa che minaccia l’attività missionaria e che la vanifica; si tratta dell’autoreferenzialità e del narcisismo spirituale. Gli apostoli, che sono stati inviati in missione, sono andati a due a due misurandosi con le loro forze senza la presenza fisica di Gesù. Investiti del suo stesso potere hanno operato e insegnato. Nel lavoro può affacciarsi e farsi sempre più spazio l’idea di contare solo su sé stessi e dare per scontato il fatto di essere testimoni e prolungamento nella storia dell’azione salvifica di Dio. La tentazione di sostituirsi a Dio è una minaccia sempre attuale sulla quale abbiamo bisogno di verificarci costantemente. Partecipare all’unica missione di Cristo e fare esperienza in prima persona della potenza del Vangelo non significa raggiungere una competenza tale da giustificare la pretesa di sostituirsi a Dio. Quando il narcisismo prende piede lo si alimenta con sogni di grandezza che da una parte allontanano dalla realtà e dall’altra fanno sbandare e creano confusione.
Quella piccola gita fuori porta, che nelle intenzioni di Gesù doveva essere un’occasione per riposare, sembra finire prima ancora d’iniziare perché la folla comprende le loro intenzioni e li precede.
Nella folla i Dodici devono riconoscere sé stessi, «pecore senza pastore». Si può essere senza pastore perché nei fatti si è scelto di farne a meno o si è preteso di sostituirsi a lui. Quelli che possono apparire semplicemente come i destinatari di una prestazione sono in realtà un gregge bisognevole del pastore che si prenda cura di loro. La compassione permette di avere uno sguardo più profondo della realtà che non si ferma al criterio dell’efficienza e dell’utile, ma coglie la necessità più profonda che alberga nel cuore di ogni uomo. Solo un servizio che nasce dalla compassione è un ministero ordinato alla giustizia, altrimenti diventa una prestazione per la quale prima o poi si chiede il conto e si paga il prezzo.
La missione non è un programma da eseguire ma i suoi tempi e la sua modalità sono dettati dal bisogno della gente. La forma della missione s’ispira a quella della povertà di cui soffre la gente che s’incontra. Si può dire dell’evangelizzatore quello che si afferma di un uomo di cultura che non dice quello che sa ma sa quello che dice. L’evangelizzatore, come Gesù, modula il suo insegnamento a partire dalla compassione, ovvero dall’esperienza di intima comunione con la gente della quale si fa carico per prendersene cura.
Quando la missione sembra essere finalmente compiuta con il meritato riposo la storia invece ci ricorda che il servizio non va mai in vacanza e che il riposo è sì tempo di rigenerazione, non semplicemente delle forze fisiche, ma soprattutto dello Spirito. Riposarsi non significa isolarsi ma fare un’esperienza più profonda del cuore di Gesù da cui attingere ispirazione e forza per amare. Frammentati nelle mille faccende, sbriciolati come il pane nelle tante incombenze che ci divorano, abbiamo bisogno di momenti nei quali sentire compassione per noi stessi e avvertire il bisogno di essere nutriti di una parola che non riempie la pancia ma pacifica il cuore. La missione non può dirsi mai compiuta ma si compie strada facendo in un continuo movimento pendolare che oscilla tra il lasciarci istruire dalla Parola e l’insegnarla alle folle, tra l’intimità con il Signore e la compassione verso sé stessi e i fratelli, tra il farsi nutrire da Dio e il darsi da mangiare alla gente, tra l’essere pecore del Pastore che ascolta la sua voce e lo segue ed essere custodi attenti e premurosi del suo gregge.
ORATIO
Signore Gesù,
pastore e guida della Chiesa,
radunaci attorno a Te e ascolta
il racconto della nostra vita
fatta di sogni e di incubi,
di speranze e paure,
di successi e di fallimenti.
Grazie perché, stanchi e affaticati,
comprendi e ci riveli
il nostro bisogno
di riposo e di pace;
stando con Te comprendiamo
che riposarsi non significa
isolarsi dalla gente
e che l’amore non va in vacanza
perché i poveri sono sempre con noi,
anzi che i poveri siamo noi,
anche quando ci illudiamo
di colmare i nostri vuoti
con le tante cose da fare.
Educami, Signore,
alla compassione
per fuggire dalla tentazione
dell’autosufficienza e del narcisismo,
che estromettono Te dalla mia vita
e sono causa di scandalo
e divisione nei mei fratelli.
Abbi pietà di me,
istruiscimi con la tua Parola
e nutrimi con il tuo Corpo
perché possa essere nel mondo
segno del tuo amore
che tutti riunisce
nel vincolo della Carità. Amen.
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