Carissimi fedeli presenti nella concattedrale di Irsina e voi che seguite da casa: s. Domenica a tutti.
Celebrare l’Eucaristia per noi credenti non può e non deve essere un obbligo o un precetto da soddisfare bensì un’esigenza, un bisogno, la necessità di ascoltare la Parola per nutrirsi fisicamente del Corpo e Sangue di Gesù. Ne abbiamo sperimentato la mancanza durante il lungo periodo del lockdown, per fortuna abbiamo ripreso sapendo che il virtuale non sostituisce il contatto reale con Gesù.
Abbiamo ascoltato nel brano del vangelo che i discepoli, pur camminando con Gesù e dietro di lui per le strade della vita, passando da un luogo all’altro, incontrando credenti e pii devoti del culto ma anche pagani, non ci sono con il cuore: percorrono altri sentieri.
Infatti il brano del vangelo odierno narra il terzo annuncio della passione di Gesù. In tutti e tre i momenti l’evangelista Marco ci fa toccare con mano l’incoerenza dei discepoli (cf. Mc 8,31-33 e Mc 9,30-37). Ciò che Gesù vuol far comprendere ai suoi è che la sua morte non è altro che la conseguenza del mandato ricevuto dal Padre realizzato attraverso la missione di incontrare, liberare, guarire tutti coloro che oggi potremmo chiamare gli esclusi del suo tempo. Per questo i discepoli sono chiamati a seguire il maestro in tutto, fino in fondo. Eppure non capiscono o non vogliono capire per un motivo molto semplice: la sofferenza non collima con l’idea che hanno del Messia quale liberatore dalla tirannia del nemico, del potere, dell’ingiustizia.
E invece Gesù indica la strada maestra che passa attraverso il servizio, con l’offerta della propria vita, mentre i discepoli continuano ad essere ciechi. Non basta vivere tanti anni accanto a Gesù per essere realmente suoi discepoli, così come non basta frequentare la comunità parrocchiale, svolgere qualche ministero, far parte di un gruppo o di un cammino di fede per vedere le cose come il Maestro.
Gesù indica per se stesso, quindi anche per i discepoli, la logica della croce, la salita verso Gerusalemme ed essere vittima di insulti, di veleni e di sputi, per essere poi crocifisso. I discepoli, invece, discutevano tra loro sul posto da occupare e chi di loro primeggiava sugli altri, evitando di approfondire il senso delle parole di Gesù.
La loro logica è quella di una ideologia dominante che continua ad attraversare la storia degli uomini, mortificandola. Si può essere bravi, ferventi e devoti fedeli, santi vescovi, preti, diaconi, religiose, ma con una visione della rivelazione del progetto di Dio per il bene dell’umanità intera molto ristretta, limitata, tesa ad eludere l’insegnamento di Cristo e della Chiesa, anzi, spesso fautrice di attacchi dannosi e feroci.
Gesù vuole far capire ai suoi più intimi che, in quel tempo come oggi, la croce è il segno della nostra salvezza. Attraverso la sua morte in croce ha redento il mondo e non attraverso proclami, teorie, logiche di potere.
E se i discepoli preferiscono parlare della carriera, dei ruoli da avere, Gesù non si scandalizza: la sua pazienza e la sua misericordia manifestano che solo l’amore crocifisso potrà curarli e guarirli perché siano essi stessi testimoni del medesimo amore donato gratuitamente.
Quante volte diciamo che chi paga è sempre il giusto? È una verità che nel tempo non è cambiata. Ma questo non significa che Dio vuole la morte del giusto, quindi di Gesù, bensì che il giusto continui ad esserlo fino alla morte, continuando ad amare (cf. Gv 13,1). E questo per un motivo molto semplice: nessuno che è realmente giusto potrà consegnare alla morte un altro uomo. Preferisce morire lui piuttosto che fare il male.
In quest’ottica comprendiamo il dire di Gesù: “Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”! E’ un servo inutile (cf. Lc 17,10). Il servizio di cui parla Gesù non è il frutto di una vittoria ottenuta dopo aver gareggiato considerando l’altro un avversario, ma esattamente il contrario: per servire bisogna scendere dal podio e stare con gli altri, allo stesso livello. L’altro non è avversario ma persona da amare.
Cambiamento dell’insegnamento di Gesù che si coglie meglio quando dice: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato”. La tenerezza di Gesù che pone il bambino al centro tra gli apostoli è espressione della cura della vita, della fragilità, dell’innocenza. Nel bambino cogliamo la ricchezza e la grandezza di essere uomini perché capaci di servire, di piegarsi e curare infondendo la fiducia di cui tutti abbiamo bisogno.
È quanto Dio ci ha mostrato attraverso il suo farsi uomo in Gesù per stare in mezzo agli uomini, amandoci fino a dare la vita per il bene dell’umanità.
Quanto stiamo celebrando nell’Eucaristia è esattamente il donarsi di Gesù per amore, lo spezzarsi per arrivare a tutti, il diventare cibo per un nutrimento che conduce alla vita eterna, il suo piegarsi e svuotarsi da Dio a uomo affinché l’uomo si rivesta di Dio.
Anche oggi, al termine di questa liturgia eucaristica, torneremo a casa, attraversando le strada della vita incontrando i volti di una umanità bisognosa di amore; calpesteremo una terra che chiede di essere rispettata e non sfruttata, amata e non violentata; guarderemo il cielo con il sole che continua a splendere oltre le nubi per riaccendere la speranza; scruteremo le stelle che solo nel buio siamo in grado di vedere. A Maria, stella del mattino, ci affidiamo per continuare a guardare e seguire il Sole che sorge: Cristo Gesù.
Così sia.
✠ Don Pino
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